«Rule, Britannia!» è il grido che si fa strada tra densi fumi e attori semi nascosti su panchine trasversali ai lati della scena che man mano si uniscono all’invocazione di colei che mostra fiera su petto e fondoschiena la bandiera inglese.
Come un mantra che si ripete quasi ossessivo, il grido “musicato” accompagna i primi minuti di Settimo cielo, capolavoro del 1979 della drammaturga inglese Caryl Churchill. Per la prima volta in Italia, lo spettacolo nasce dalla volontà della regista Giorgina Pi, una delle fondatrici del collettivo romano Angelo Mai. Settimo cielo aveva già riscosso grande successo di pubblico e critica la scorsa stagione, aggiudicandosi anche due candidature ai Premi Ubu 2018.
Due atti, due mondi, due secoli. Africa 1879: una famiglia inglese si trova a vivere suo malgrado in una ricca residenza nel cuore del continente nero, dove Clive ha il compito di mantenere l’ordine tra le tribù di selvaggi. I membri della famiglia si presentano al pubblico in tutte le loro idiosincrasie, in un cross casting che vede capovolgimenti di ruoli sessuali e gerarchici. In questo a tratti farsesco gioco, il tempo viene scandito scenicamente dal lento rigonfiamento di un enorme mappamondo delle dominazioni britanniche. In un continuo rimescolamento delle identità, interiori prima che fisiche, i temi trattati mettono lo spettatore davanti un insistente slancio di desiderio dove il potere viene continuamente cercato attraverso quella libertà di essere finalmente sé stessi che non arriverà mai. O forse sì. Passa solo un quarto di secolo (almeno scenicamente), eppure il salto cronologico del secondo atto indicato dal pannello in alto ci informa che ci troviamo nella Londra del 1979. Margaret Thatcher è appena stata eletta e i membri della famiglia si ritrovano più grandi, più disillusi, figli del tempo della piena rivoluzione sessuale e sociale che li porta a prendere per mano il loro destino e a spogliarsi di vergogne e mancanza di coraggio, sebbene questo non sia sintomo di benessere o a maggior ragione di felicità.
Giorgina Pi infarcisce il testo inglese di un’estetica rock nel primo atto e punk nel secondo che ben si addicono al rovesciamento visivo dei diversi ruoli, quasi sempre imposti dalla società. Ecco che il testo si fa critica e accusa ad un mondo ancora troppo “impacchettato” in stereotipi riguardanti l’omosessualità, il razzismo, l’emancipazione della donna. Si sorride molto durante tutto il corso dello spettacolo, la Churchill è una professionista nel colpire con il tipico humour inglese che non lascia scampo però alla riflessione, colta scenicamente dalla Pi e da un cast affiatato e versatile, agrodolce perché vera, anzi amara perché ancora oggi così tremendamente attuale.