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Lear, my father

Andato in scena l'8 giugno 2019 presso Il Cantiere di Roma la rilettura contemporanea di Luca Guerini del celebre dramma shakespeariano

Lear, My FatherLiberamente tratto dall’opera “Re Lear” di William Shakespeare

Adattamento e Regia Luca Guerini

Interpreti Serge Moo, Sophia Zaccaron, Mattia Ciprianetti, Antonio Valenzano, Andrea Alaia

Produzione Realtà Teatrale Skenexodia

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Uno spazio scarno, una scala dalla quale osservare le mutazioni del mondo (la famiglia al cospetto del regno), pochi oggetti sparsi, delle cuffie incollate come separazione netta dalle voci dell’esterno che sembrano portare sempre sulla cattiva strada, vocii distinti, un “buffone” nudo menestrello ascoltatore e sbandato consigliere. Cinque attori che si alternano nella interpretazione dei personaggi principali e l’unica attrice che personifica le tre figlie di Lear. Tre atti (dei cinque originari, a esclusione del subplot centrale agli stessi) per tre ambienti diversi, dove lo spazio teatrale apre le porte a tre libere visioni della tragedia, molto contemporanee (con tanto di smartphones), al centro del rapporto-chiave tra il Re e le sue figlie (Cordelia, Gonerin e Regan), utile a focalizzare l’azione sul conflitto morale che attanaglia le decisioni spettanti al protagonista, interpretato dal più disinvolto tra gli attori, Serge Moo. Ed è sull’aggirarsi spaesato e farneticante del Re Lear che l’autore Luca Guerini decide di concentrarsi, lasciando che ad emergere sia il lato fosco e opprimente della poetica scespiriana, senza tralasciare un pizzico d’ironia, nell’atto stesso di tenerne a bada le vesti, nell’improbo tentativo di controllarne la farneticante mente. Nell’arduo compito si alternano disciplinatamente i più presenti Mattia Ciprianetti (Fool) e Sophia Zaccaron (le tre figlie), e con spazio e tono minore Andrea Alaia (Kent) e Antonio Valenzano (Cornovaglia/Albanatte).

Esperimento di rilettura audace, dove la natura da “recita scolastica” che si respira favorisce, in realtà, una dimensione di scoperta in fieri, rivelazione degli anfratti della coscienza divisa, rivelazione autentica delle possibilità infinitesimali del teatro come luogo di ripensamento, oltre che di azione. Lo spostamento del pubblico nei tre ambienti interni al teatro probabilmente non favorisce una fedele immedesimazione al testo e alle atmosfere ma si apprezza il tentativo d’immergere sempre più il pubblico stesso nell’approssimarsi lento e inesorabile della tragedia, mentre gli attori annaspano nel restituire dal di dentro di quelle mura, mutevoli, mobili nel vero senso della parola, quella tensione dialogica necessaria ad un’opera che all’epoca destò scandalo per via dell’innovazione conferita al finale con la dipartita dei due attori principi.

Come in pasto alla polvere e al tufo di ambienti da ricostituire, quelli dell’incrollabile dannazione al potere, si giustificano le traiettorie sbilenche impartite, finendo per apprezzare la vitalità inferma degli interpreti, al seguito di una rivisitazione onirica e postmoderna che cerca spiragli di luce nella disarmonia del divario, non più netto, tra i due mondi, le due epoche: antica e moderna, il mondo dei morti e quello dei vivi che da sempre accompagnano la poetica del sacro autore inglese.

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