Fittissima programmazione quest’anno per la dodicesima edizione del Napoli Teatro Festival Italia, manifestazione che vanta oltre 150 eventi tra teatro, danza e letteratura. Diretto da Ruggero Cappuccio, il NTFI si sviluppa a ragnatela nel capoluogo partenopeo in circa 40 luoghi della città e non solo. Ho avuto il piacere di assistere a quattro spettacoli/eventi durante la mia permanenza napoletana, quattro mise-en-scène molto diverse tra loro che per questa ragione meritano ognuna un approfondimento “corposo” a sé stante.
Cominciamo dalla sezione italiana, con due prime assolute: dal 27 al 28 giugno al Teatro Sannazzaro è andata in scena la Tragedia comica per donna destinata alle lacrime, sottotitolo di Non farmi perdere tempo con una straordinaria Lunetta Savino e al Teatro Nuovo dal 29 al 30 giugno è stata la volta di Coltelli nelle galline, protagonista un’altra donna del piccolo schermo italiano, Eva Riccobono.
«Spalle al muro quando gli anni son fucili contro», la giovane già vecchia Tina (Lunetta Savino) ripete quasi ossessivamente questa ed altre emblematiche frasi dell’omonima canzone di Renato Zero, testo di Mariella Nava. Per “darsi un tono”, per tirarsi su, per combattere ogni giorno contro una malattia che la vede ventisettenne ma intrappolata nel corpo di una sessantenne, piena di acciacchi, imbottita di farmaci, fragile eppure così volitiva da voler mangiare il mondo cercando di ingannare il tempo che non ha. Non farmi perdere tempo, scritto e diretto da Massimo Andrei, è la storia malinconicamente comica di una donna fondamentalmente sola, che in sé racchiude un’incredibile voglia di vivere. Il tempo governa metaforicamente la sua vita e visivamente la scena in cui campeggiano diversi orologi, sempre presenti a ricordarle lo scorrere inesorabile dei giorni che la vedono sempre più debole, invecchiata, malata. Eppure non si ha l’impressione di assistere ad una tragedia, il guizzo interessante dello spettacolo sta nello “scorrere” via con un pizzico di comicità qui e un siparietto lì nonostante la pesantezza del tema della malattia, nonostante sia il ritratto di una donna che non può contare su quasi nessun affetto, che quando si relaziona con la badante rumena o l’amica conosciuta in un centro non lo fa mai realmente ma in un dialogo immaginario, come se fosse chiusa in una bolla di vetro, troppo delicata per affrontare il mondo reale. Ma i sogni si avverano per tutti, se la determinazione batte la voglia di lasciarsi andare e allora per Tina è il momento di realizzare almeno la sua ambizione da showgirl con tanto di lustrini, nel finale che costituisce l’apice della meravigliosa interpretazione di Lunetta Savino.
Il Teatro Nuovo, nel cuore dei Quartieri Spagnoli, viene sviscerato delle sue poltroncine rosse per far spazio al mondo rurale di Coltelli nelle galline, diretto da Andrée Ruth Shammah che cura con Monica Capuani anche la traduzione del primo testo del pluripremiato drammaturgo scozzese David Harrower. Gli spettatori circondano lo spazio scenico ideato da Margherita Palli frontalmente e lateralmente, seduti su panche ricoperte da cuscini di paglia, ai lati grandi sacchi di farina, stralci di balle di fieno e lanternine appese al palco. In quest’atmosfera vagamente voyeuristica che annulla la quarta parete e le distanze tra attori e spettatori si svolge la messa in scena di uno strano triangolo amoroso che vede a confronto tre diverse anime, tre solitudini che si ritrovano e si perdono l’una nell’altra in un circolo vizioso dal finale noir. Fulcro assoluto, perno drammaturgico e scenico la figura femminile (Eva Riccobono), senza nome, una contadinella ignorante e totalmente inconsapevole della vita e delle sue infinite possibilità. Da un lato il marito William (Alberto Astorri), soprannominato Pony per via della sua attività di stalliere, uomo semplice e rozzo, amante dei cavalli, del vino e delle scappatelle notturne. Dall’altro il tenebroso mugnaio Gilbert Horn (Pietro Micci), emarginato dal villaggio per via di una falsa diceria riguardante la morte della moglie e del figlio. Lo spettacolo si sviluppa su due livelli, a quello reale dato dalle azioni e dai movimenti degli attori se ne aggiunge uno più piccolo su scala, rappresentato dalle costruzioni degli ambienti mosse dagli attori sul palco a seconda delle scene e dalle loro stesse miniature in relazione tra loro e con gli spazi. La vita scorre lenta e rassicurante per la coppia, fra il lavoro nei campi e qualche “sveltina” per assolvere ai “doveri coniugali”, fin quando la giovane donna scopre attraverso il mugnaio il piacere perso prematuramente per la scrittura. Simbolo e segno della porta della conoscenza e della cultura, la scrittura si imprime nel cuore della donna e nei veli che sovrastano il fondale del palcoscenico. Il processo psicologico che essa instilla nella donna la porta a cedere all’attrazione anche carnale che prova nei confronti del mugnaio e a immaginare un piano per liberarsi del fedifrago consorte, ucciso con la complicità di Gilbert. Ma la potenza del testo di Harrower non finisce con l’omicidio del terzo incomodo, al contrario l’episodio è la chiave di volta per la libertà e l’emancipazione della donna che, sola e bastante a sé stessa, diventa ella stessa mugnaio del villaggio dopo la partenza dell’amante, rivendicando la sua conquistata e consapevole indipendenza. Coltelli nelle galline è uno spettacolo di forte impatto visivo, attoriale e drammaturgico, un meccanismo ad orologeria pronto a scoppiare nel corso della prossima stagione teatrale.