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Gioco di specchi

Quattro personaggi, soltanto uno e mezzo in scena: la grande prova di Umberto Orsini ed Elisabetta Piccolomini

Il nipote di Wittgenstein
Foto di Marco Caselli

Il delirante sproloquio dello scrittore Thomas Bernhard (Umberto Orsini) in ricordo dell’amico perduto Paul Wittgenstein, impazzito principalmente a causa dell’essere vissuto all’ombra dello zio Ludwig; una storia già raccontata dal romanzo dello stesso Bernhard, qui tradotta da Renata Colorni e adattata dal regista Patrick Guinand, ma una storia che sarebbe potuta nascere per il teatro, se non altro per il richiamo (involontario?) alla diffidenza nei confronti della scienza medica tipica di un Molière.

L’amara vicenda di Paul Wittgenstein viene narrata dall’amico Bernhard nell’interpretazione del Premio Ubu 2011 Orsini come miglior attore, ripercorrendone i tracolli economici e razionali che Bernhard/Orsini sembra voler imitare per spirito di solidarietà, sotto lo sguardo vigile ma impotente della silenziosa ascoltatrice (Elisabetta Piccolomini). Uno specchio con più facce, in cui il protagonista unico dello scena si confronta con personaggi che non possono palesarsi, riflettendosi piuttosto sul personaggio dimezzato di lei.

L’altra metà di Piccolomini è irrimediabilmente adombrata da un Bernhard che preferisce la compagnia dei suoi fantasmi al calore umano della sua presenza, eco del rapporto di spiacevole sudditanza che Paul Wittgenstein deve aver vissuto con il parente ingombrante. L’eccezionale interpretazione di Orsini si traduce quindi in una staffetta, caricandosi di quella stessa follia che Paul pare avere contratto nel suo rapportarsi con lo zio. Tutto, nello spettacolo, è studiato in ragione di questo gioco di specchi attraverso cui la follia si propaga nel tempo: la sobrietà dei costumi di scena (Pierre Albert) che contrastano con la dilagante eccentricità; gli spigoli attutiti della scenografia (Jean Bauer) per meglio assorbire il delirio di un pazzo; il disegno delle luci (Hervé Gary) che puntualizza i sentimenti del protagonista unico, stagliando chiaroscuri sulle pareti della sua prigione ovattata.

Analogamente, anche il difficile ruolo di Piccolomini è interamente votato alla rappresentazione della follia che si fa strada attraverso il ricordo: è la figura di una genitrice combattuta tra l’istinto, che la porterebbe a curare Bernhard/Orsini come un figlio, e la ragione che la mantiene distaccata come una muta spettatrice, forse perfino spaventata dall’insania dell’uomo.

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Il nipote di Wittgenstein – Storia di un’amicizia

di Thomas Bernhard

traduzione Renata Colorni

adattamento Patrick Guinand

con Umberto Orsini

e Elisabetta Piccolomini

regia Patrick Guinand

scene Jean Bauer

costumi Pierre Albert

luci Hervé Gary

produzione Compagnia Umberto Orsini

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