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“La camera azzurra” con Fabio Troiano e Irene Ferri alla Contrada di Trieste

In scena il dramma passionale di Simenon fino al 13 novembre 2019 al Teatro Stabile Orazio Bobbio di Trieste

La camera azzurra
Foto di Laila Pozzo

di Georges Simenon
adattamento Letizia Russo

regia Serena Sinigaglia

con Fabio Troiano e Irene Ferri
e con Giulia Maulucci e Mattia Fabris

assistenti alla regia Sandra Zoccolan e Giulia Dietrich
scenografia Maria Spazzi
disegno luci Alessandro Verazzi
costumi Erika Carretta
scelte musicali Sandra Zoccolan

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Il dramma di Georges Simenon tra eros e noir approda per la prima volta a teatro e viene accolto con calore e partecipazione dal pubblico triestino.

La camera azzurra (romanzo scritto nel 1963), è una storia in cui gravitano forti e contrastanti emozioni: sensualità, paura, pettegolezzo, omertà, tradimento, moralismo nello scenario della provincia francese dove tutti conoscono tutti e si conduce una vita ordinaria e scontata.

Una scenografia accattivante, una linea prospettica che accentua la profondità della stanza tutta azzurra, con tre protagonisti vestiti dello stesso colore. I personaggi sono già in scena quando si apre il sipario, solo uno appare diverso nel suo affannarsi tra carte e documenti: un giudice. La vicenda è ben narrata dalla recitazione degli attori che accompagnano lo spettatore nell’incalzare degli eventi. La storia è quella di un uomo e una donna, Tony e Andrée, ex compagni di scuola che oggi quarantenni ed entrambi sposati, danno sfogo a una passione irrefrenabile. La camera azzurra di un hotel non è solo il luogo dei loro incontri, è anche l’ambiente in cui si dipana tutto il dramma di Simenon. Il giudice interroga a turno i personaggi e dalle risposte si evince la loro personalità: Andrée (Irene Ferri), spigliata e arrogante, addirittura sfrontata nelle movenze e nelle risposte, determinata nei suoi desideri e nel modo di ottenere ciò che desidera; Tony (Fabio Troiano), contorto nei comportamenti e nei desideri, ossessionato dalla passione per la bella amante non vuole però rinunciare alla sua famiglia; la moglie (Giulia Maulucci), incastonata nel ruolo di moglie e di madre degli anni cinquanta, probabilmente sa ma non vuole vedere, intuisce ma prosegue in maniera ottusamente cieca la sua strada verso un ménage familiare; per ultimo il giudice (Mattia Fabris), ossessionato dal caso e dalle profonde ragioni della passione umana, indaga sulle vicende ed attraverso queste scruta anche dentro se stesso.

Un finale aperto e non scontato lascia spazio a molti interrogativi e a un’intima riflessione sull’eterna diatriba tra ordine e caos, passione e tranquillità, emozione e calma.

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