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Intervista a Giovanni Guidelli

Ines Arsì ha intervistato per voi uno degli attori più interessanti del panorama attuale italiano, direttore artistico della compagnia Avatar

Giovanni Guidelli
Foto di Michele Monasta

Musicista e attore itinerante sin dall’infanzia, Giovanni Guidelli è cresciuto a pane e teatro, divenendo un grande professionista della ricerca artistica, grazie ad una costante necessità di perfezionamento delle sue doti.

Già a dieci anni protagonista di radiodrammi per la Rai, a diciassette diventa allievo di Vittorio Gassman, mentre studia al Conservatorio di Firenze.

Esordisce, nel mondo del cinema, sotto la direzione dei fratelli Taviani e ottiene innumerevoli successi, poi anche interpretando personaggi in diverse fiction televisive molto amate dal pubblico.

Direttore artistico della compagnia Avatar, ha curato la regia di diversi spettacoli ed è anche autore di romanzi.

Intervistarlo è un modo per ripercorrere la sua intensa carriera e apprezzarne il grande spessore.

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Giovanni Guidelli, la sua esperienza artistica prende avvio quando lei è ancora bambino. Come si è avvicinato al mondo della musica e poi alle pratiche dell’esercizio attoriale?

Ho cominciato perché mio padre metteva in scena degli spettacoli di piazza; erano gli anni ’70, fermento sociale, culturale e c’era un sacco di varia umanità… Collaboratori che andavano sul palco, c’era chi suonava, chi recitava, chi andava sui trampoli: e io guardavo, e immagazzinavo tutto e con la mia prima chitarra imparavo come fare questo o quell’accordo. Poi, a 10 anni, ho fatto un provino alla sede Rai di Firenze, e sono entrato a far parte degli attori che facevano i radiodrammi.

Ci racconti dei suoi primi percorsi artistici itineranti.

Giravamo l’Italia, all’inizio, i primi anni, ero molto piccolo, e suonavo e cantavo canzoni popolari toscane assieme a mia sorella Miriam: feste di piazza, feste dell’Unità, feste di paese… Poi man mano il “giro” si è ridotto, e allora giravamo solo la Toscana in lungo e in largo. I palchi erano allestiti ovunque e di qualsiasi tipo: sul pianale di un camion, nella piazzetta del paese, in un campo… Diciamo che noi (dico noi, perché poi hanno cominciato a far parte dello Spettacolo anche le altre due sorelle) eravamo una sorta di Carro di Tespi, o una sorta di Fenomeni da baraccone: 4 fratelli che suonavano e cantavano (e qualche volta scambiavano anche battute in scenette), non era una cosa che si vedeva così spesso.

Cosa ricorda della sua esperienza come attore radiofonico? Ha contribuito a perfezionare le sue tecniche espressive?

In Rai sono entrato talmente piccolo che ho cercato sempre di rubare con gli occhi e con le orecchie: annotavo le intenzioni di questo o quell’attore. E ve ne erano di grandi professionisti, allo Studio C di Firenze: gente di un’altra epoca. In effetti credo di essere stato testimone del declino dei radiodrammi, come forma artistica e di “intrattenimento”. Prima c’erano grandi registi (mi ricordo Benedetto, Raiteri, ad esempio…) grandi sceneggiati, grandi attori… Poi, negli anni, tutto si è spento: anche la lucina rossa dell’on air. Finito.

Cosa ricorda, invece, della sua prima esperienza sul set cinematografico dei fratelli Taviani, ai suoi quattordici anni?

Ricordo il provino e ricordo un’emozione forte, nel campo di grano, nella scena in cui il giovane fascista viene ucciso. La ricordo come un’estate davvero calda e ricordo anche che c’era una tensione strana e forte nell’aria, un’emozione, nella troupe e nel cast… La sensazione che stavamo partecipando a qualcosa di importante. Poi il Film ha vinto quello che ha vinto, in tutto il mondo.

La sua carriera, già ben avviata in giovanissima età, ha condizionato il suo rapporto con i coetanei e la routine scolastica?

Beh, si: la scuola l’ho sempre rincorsa, o mi ha rincorso lei. Sia come itinerario di studi che come sedi. Ho cambiato spesso. Col Conservatorio di Musica di Firenze ho avuto più costanza.

Ha avuto l’occasione di poter studiare nella Bottega Teatrale di Vittorio Gassman. Quali sono gli insegnamenti che le ha trasmesso? E come lo ricorda?

Beh, hai la fortuna di essere selezionato fra mille aspiranti attori e già questo era incredibile. Poi davano una sorta di borsa di studio: svariate migliaia di lire al giorno (sono entrato a 17 anni, nell’84). E poi c’era Lui, Gassman. Una volta mi disse: “Devi ridere di più”. Ci sto ancora lavorando. Ma comunque mi pareva contento di quello che facevo.

Per la Rai, ha collaborato anche al programma Fantastico. Cosa ricorda di quell’esperienza e come ha imparato a domare l’ingranaggio televisivo e a gestire le emozioni sotto pressione?

Fantastico è stato il culmine della carriera come gruppo vocale strumentale, con le mie sorelle: i Fratelli Guidelli ci chiamavamo. Non era diverso dal dover gestire un pubblico di piazza scalmanato, o i bambini sotto il palco che si rincorrono, o la ruota dei salami di Montespertoli di lato al palco. Quelle esperienze mi erano servite per allontanare il timore della “macchina televisiva”. Ero abituato a dover andare avanti in ogni caso, con qualunque pubblico, e Fantastico era il top in Italia, al tempo. A Fantastico eravamo ben seguiti, sia come arrangiamenti musicali che come costumi, trucco, audio, luci, ecc… Insomma: tutto funzionava. E poi, di lato dalle quinte potevi anche sbirciare dal vivo, a due metri, i Duran Duran, o Carol Alt, o Christophere Lambert.

Lei sembra non essersi mai stancato di affinare le sue competenze attoriali. Di questa professione cosa ama di più?

L’attore è un percorso. Non arrivi mai. Personalmente mi pongo sempre domande circa quello che sto facendo: sono “credibile”?! Che poi è l’unica cosa che conta, per me. E per cercare di esserlo sempre, o almeno sempre più vicino, devi svuotarti di certezze e riempirti di dubbi. E allora forse posso essere un Duca nell’800, e un Poliziotto oggi, o Lorenzo il Magnifico, oppure una donna. Perché l’abito non fa il monaco: l’abito fa l’abito. Il monaco, se c’è, devi trovarlo dentro di te. Il mestiere di attore consente di entrare talmente dentro tanti uomini e dentro innumerevoli storie, epoche, abitudini, comportamenti, posture, classi sociali. Ed è un viaggio incredibile, vivere per breve tempo la vita di qualcun altro: una sorta di schizofrenia.

Tra le innumerevoli interpretazioni teatrali, cinematografiche e televisive, dove sente di aver raggiunto dei risultati importanti per la sua crescita artistica?

È indubbio che arrivare a recitare accanto a Premi Oscar è, professionalmente, il traguardo più significativo. Hai la fortuna di lavorare con un “maestro” accanto, hai la possibilità di “rubare”, di apprendere: non sei coll’insegnante del circolino, sei con uno che ha vinto un Oscar. Sta a te cogliere l’occasione e farne tesoro. Credo che, come tutti i mestieri, esistano i livelli. Esistono gli artigiani, le botteghe, e per migliorare devi sempre imparare da chi ne sa di più, con dedizione e umiltà. O almeno una volta era così.

Teatro, cinema, televisione. Ci racconti come deve adattarsi, secondo lei, il lavoro attoriale a ciascuna di queste tre dimensioni del mondo dello spettacolo.

Il Teatro non ha scuse. Sei tu, lì, davanti al pubblico: nient’altro. Importa ciò che “passa”: quello conta. Tu sei lì per “evocare” lo spirito di un personaggio. È una sorta di seduta spiritica fra te e il pubblico. Se funziona, è da paura. Hai tutto: lo spazio, le braccia, il corpo, la voce. Tutto nelle tue mani, tutto quello che serve per vivere il transfert. Io di solito mi assegno dei punti di riferimento cardine, sulla scena, e li abbino a certe parole. E in questa ragnatela spaziale che ho ordito, dove ogni cosa è dove so che dev’essere, mi muovo sicuramente, come un ragno. E se la memoria è a posto, tesso altre tele, altri sospetti, altri inganni, altre emozioni.

Il Cinema invece è “la grande illusione” dove tutto quello che vedi non è mai quello che è. Di solito sul set mi informo su quale obiettivo è in macchina, su qual è il campo, se siamo su un Primo Piano, o su un Piano Americano, e a seconda della risposta vedo di modellare la mia recitazione. Se devo trasmettere un sentimento di ira profonda e sono su un primo piano, dovrò farlo semplicemente alzando un sopracciglio “a comando”. Non tutto il volto, quindi, non assieme alle braccia, non il busto: solo un sopracciglio. Deve bastare. E devi essere credibile. Ecco: il Cinema è estrazione a comando.

La Televisione invece, le lunghe serie, non ti danno modo di offrire una performance attoriale esilarante, perché “giri” con tempi davvero così stretti che alla fine non c’è il tempo per rifare, per rigirare una scena. Tengono la prima buona (tecnicamente). A volte tengono buona la prova. Quindi non c’è il tempo di sviscerare col regista i dubbi sul personaggio: devi essere sempre pronto. Subito. Devi riuscire a mantenere uno standard al di sotto del quale non andrai mai. E la memoria è la tua massima compagna. Paginate di battute ogni giorno. Però, di per contro, la televisione ti dà il tempo di sviluppare il tuo personaggio orizzontalmente, uno sviluppo narrativo che continua per mesi, a volte anni, e che spesso costituisce la tua vita parallela.

Si occupa anche di regia. Essere, anzitutto, un valido attore le permette di affrontare, forse, in modo più centrato la parte operativa di una direzione artistica?

Essere attore mi consente di indicare con molta aderenza l’esatta intenzione che desidero da un collega. Cioè, mi sostituisco a lui, a lei, e posso “far vedere” fisicamente cosa voglio. L’indicazione che lascio, da principio, è generale, ma a volte è necessario mostrare in prima persona.

Ha scritto dei romanzi. Cosa significa per lei scrivere e dare luce alle sue elaborazioni interne? Può trattarsi di un ritorno alle radici dell’arte interpretativa?

Non posso dire di essere uno scrittore, non sta a me, ma scrivo. Mi interessano le storie. Tommaso Sgricci è stato l’unico improvvisatore di Tragedie mai esistito, ed era un giovane toscano dei primi dell’800, e andavano a vederlo da Mary Shelley, a Byron, a Stendhal, Polidori, Monti; e lui si esibiva anche davanti al Papa, o in Francia, o in Inghilterra. Era “Unico”. Ecco: su di lui ho scritto il mio primo Romanzo storico. Anni per biblioteche a ricercare documenti, alcuni anche dell’Archivio segreto di Polizia. Un lavoro di detection. Tutto per risollevare Sgricci da questa damnatio memoriae che non merita.

Ecco… Nella scrittura adotto lo stesso criterio di quando devo affrontare un personaggio: la documentazione. Documentarsi è la via. L’Impollinatore, per esempio, il mio nuovo testo teatrale, vincitore dell’Earthink Festival, lo scorso anno a Torino, portato in Anteprima a Genova, al Festival della Scienza, affronta l’emergenza climatica, il crollo degli ecosistemi, l’ecatombe delle api, gli sconvolgimenti del nostro pianeta, il comportamento dissennato dell’uomo e le conseguenze che dovremo affrontare: un testo assolutamente così vicino a ciò che adesso sta in effetti accadendo.

Il momento di estrema difficoltà, dovuto alla pandemia che ha investito il paese e il mondo intero, sta mettendo in seria difficoltà anche gli equilibri economici. Come ne sta risentendo, secondo lei, il mondo della cultura?

Questo è un argomento triste, perché vedo il prossimo futuro davvero inquietante e il modo in cui, fino ad oggi, questa situazione è stata affrontata da chi di dovere (parlo dei passi intrapresi a difesa del settore spettacolo e cultura) è davvero poca cosa. Non voglio fare proclami, né dibattiti e neppure polemiche, ma il settore Spettacolo dal vivo diventerà nei prossimi mesi “spettacolo da morto”. E questo perché purtroppo da troppi anni il nostro settore non è stato riconosciuto a dovere, né per la sua valenza culturale, né artistica, né di importanza sociale. Si fa presto a dire Cultura, a dire Musei, Monumenti. Ma il lavoro dell’attore… Non è nemmeno stato considerato. Un po’ come quando gli attori venivano sepolti in terra sconsacrata. “Virtuale” non significa “Virtuoso”. Vorrà dire che l’attore lo faranno fare ai Robot, in smart working. Una bella voce metallica, ma sanificata. Nessun rischio contagio. Tantomeno emotivo. Fantasia e sogno generati con una App. E pubblicità via sinapsi. Tanto è uguale, no?

Grazie.

Ines Arsì

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