Questa poesia di Emanuele Martinuzzi vuole essere una trasposizione letteraria del celebre film muto “Metropolis” di Fritz Lang, considerato il suo capolavoro. Nei versi si descrive una realtà senza tempo, dove l’unica tensione mistica verso l’assoluto è quella verso la materia e le sue apparenze standardizzate. La presenza umana è solo un’ombra senza corpo, innestata da strumenti, suoni e forme tecnologiche. Non c’è un centro, ma ogni singolo è ai margini di una massa che si compone e ricompone con meccanismi casuali e tribali. Tutta la poesia circostante e superstite è trattata come un corpo morto da dissezionare, criticare, classificare. L’unica folgorazione è quella data da un segnale acustico metallico che proviene da non si sa dove, l’unico linguaggio quello binario dell’elettronica. L’autore vuole rievocare le atmosfere del capolavoro espressionista di Lang e del suo mondo fantascientifico, ambientato in un futuro distopico.
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Veduta di una metropoli
È l’autopsia del verso
che plagia l’indifferenza
armata dei grattacieli,
il loro misticismo orizzontale.
Piano terra, integrato, file di assenze.
La folla conturba ogni nostalgia,
ai margini il solitario, l’assillo randagio di input,
il vortice combinato.
Provengono dal collasso dei celesti
le corti logiche di micro-vetrate,
dalla frenesia della materia,
le alcove di silicio, l’ossute introversioni.
Ultimo piano, pin uscente, sublimazioni neo-tribali.
L’effetto farfalla di grigie inquietudini.
Il riverbero di un bip cadente,
nella folgorazione binaria.