La nuova pubblicazione di Nazario Pardini Dagli scaffali della biblioteca ci permette di apprezzare ancora una volta la sua verve di scrittore in versi, oltre che di fine critico e narratore altrove dimostrate. Se non costituisce una particolare novità nel panorama della sua opera, riprendendo (inevitabilmente) temi già affrontati ed ispirazioni già seguite, è però ancora sorprendente per la freschezza del pensiero, per la leggerezza dello scrivere, per la spontaneità dei sentimenti espressi, per il fascino con cui cattura il lettore fino a portarlo ad approfondire tanti aspetti dell’umana esistenza, senza però quel tedio di fondo che a volte si coglie nelle “rimembranze”. Perché si tratta di ricordi, sostanzialmente, in questi versi. Anche se il Pardini ci avverte: “… Non diciamo ‘ricordi’. Raccontiamo / le cose come stanno, / i luoghi, le canzoni, i panorami, / la nostra infaticabile allegria, / la timidezza che impediva spesso / gli abbracci che ci avrebbero confusi / nell’empito d’amore. Ora è tardi, / mia carissima Delia, non c’è più / la timidezza che ci fece allegri, / la corsa improvvisata sulla sabbia / che raccoglieva bàttime per noi…” (Non è più il tempo). Ma andiamo con ordine.
La prima parte della raccolta è intitolata Ricordi che pungono. È una rassegna di affetti familiari che il poeta presenta al lettore con la delicatezza di sentimento di chi contempla la fuggevole realtà come segno di qualcosa che non si comprende appieno, ma che inevitabilmente c’è, e perciò va riconosciuto come vero al di là di ogni ragionevole dubbio: “…una parvenza del mistero / che anche la piccola foglia / non tace” (così termina Toglietemi quel muro).
Sono ricordi non sempre facili, di fronte ai quali il Pardini, quasi sofferente, può confidare: “…Ora la penna è stanca, non ha più / l’inchiostro sufficiente per descrivere / il triste stato di una solitudine, / stordita dalle voci andate via…” (Ai miei cari). Ciò nonostante, “…La mia casa non ha preziosi in cassaforte / ha solo l’uscio aperto nell’attesa / di qualcuno che passi e si soffermi, / per dire due parole” (La mia casa): è una tristezza cha apre, non che chiude in se stessi.
Pur pensando sempre ai “…Tanti i volti che si sono spersi / lasciandoci più soli nei ricordi”, come recitano due versi della lunga poesia A mia nipote Carla in tempo di memorie, il Pardini non si ritira dall’affacciarsi al tempo in cui “tutto era bello, tutto una ricchezza” (così si legge nella poesia dedicata A mio fratello Saverio e Graziella – Per il cinquantesimo anniversario del matrimonio). Trattiene quel “tutto” nella memoria e nello scriver versi lo ricompone, come si ricompongono le infinite gocce in un “mare / di nostalgie fresche e ricamate” (parole tratte da un’altra lunga poesia dedicata A mio nipote Sandro).
La seconda parte dà il titolo all’intera raccolta: Dagli scaffali della biblioteca. Vi sono raccolte, semplicemente contraddistinte da un numero romano, trenta poesie di varia lunghezza. Sono immagini, momenti catturati al tempo: il sole che da mattina a sera vede, osserva la vita degli uomini (I); il poeta che immagina Chagall dipingere un gruppo di contadine (II); nella III si immagina seduto accanto a Manzoni, Leopardi e Catullo che declamano i loro scritti, finché un temporale li fa svanire: “…Ma nell’aria continuano a volare / parole e melodie; indifferenti / al giungere di nubi ed acquazzoni”. E via così, di immagine in immagine, tra sprazzi naturalistici ed accenni a vari scrittori, non solo poeti come Baudelaire, Dante, D’Annunzio, Saba, Pavese, Cardarelli, Ungaretti, Francesco Pastonchi, Attilio Bertolucci, Giuseppina Cosco, Giorgio Caproni (che dolcemente e dolorosamente chiede: “-Anima mia leggera / va’ a Livorno, ti prego, / e con la tua candela / timida, di nottetempo / fa’ un giro; e, se n’hai il tempo, / perlustra e scruta, e scrivi / se per caso Anna Picchi / è ancora viva tra i vivi…-”; e quest’Anna era la madre del Caproni). Le citazioni testuali, come questa del Caproni, abbondano, tutte uscite Dagli scaffali a cucire un testo misto di poesia e saggistica, così doppiamente ricco di spunti di riflessione.
Ecco cosa “vive” negli scaffali della biblioteca del Pardini, e cosa egli ci fa rivivere, ponendocelo dinanzi: uno stuolo di poeti, ma anche un critico come Carlo Bo ed illustri filosofi, da Platone a Nietsche – protagonisti di ‘incontri ravvicinati’ col Nostro. Attorno a loro tutto si presenta come vivo, presente. Magia – diciamo così – della poesia pardiniana, di cui è popolato non solo il mondo dei suoi ricordi, ma che va a riempire anche il nostro vuoto di cultura. E tale magia si dipana fino alla XX poesia che esce Dagli scaffali…, dedicata a Sibilla Aleramo e seguita dalla lettera del 25 aprile 1917 con cui la stessa Aleramo da Firenze inviava la poesia Sento che sorrido al suo “povero Dino” (Dino Campana). In mezzo alla raccolta spicca la X, una favola in versi – dal vago sapore autobiografico? – raccontata dal poeta al suo immaginario interlocutore del momento: il “…quaderno / con le pagine aggrinzite / dell’ultimo scaffale, un volto mesto…”, al quale dedica la fiaba “…di un re e una regina che non vollero / sedersi sopra il trono, ma pazienti / si dettero al lavoro per i campi…”; è una fiaba che non ha un lieto fine, perché la morte sopraggiunge anche per loro, ma che rende il quaderno “… felice che anche le mie pagine / contengano una fiaba emozionante / da recitare a chi viene a trovarmi-”. Né si può tacere della XV, protagonisti “…Leopardi con Manzoni, Cardarelli / con Pavese, Catullo con D’Annunzio… / e tutti esprimevano pensieri / sul mondo e le vicende che toccavano / la loro singolare situazione…”, finché sono quasi costretti a lasciare il passo ad Ungaretti, che con “…voce rauca e un po’ sgraziata /…/ fece sentire il suono dei suoi versi / ponendosi in rilievo…”; la poesia si conclude così: “… Chiuse il suo testo e con la voce mesta / si ritirò al suo posto; tutti quanti / lo accompagnarono; e pronti alla lettura / recitarono i versi del poeta, / mentre lui con animo avvilito / si chiuse in un mutismo solitario: / quella cosa che più gli confaceva” – quasi il tratto finale di un bozzetto che ci dona un appropriatissimo ritratto di Ungaretti.
Le Dieci poesie d’amore, che costituiscono la terza ed ultima parte della raccolta, sono un inno alla vita. Vi si trovano immagini leggere, fresche, spontanee: “…il tuo sorriso / appoggiato alla spalla di un torrente / che lieve scorreva verso il mare…” (Con la rete da pésca); vi sono tratti paesaggistici accostati al sentimento personale, quasi a far partecipare la natura delle vicende umane – come in molta tradizione, non solo romantica: “…La rena risplendeva ai raggi della luna, / e l’onda luccicava. Tutto ci era vicino…” (Corri Delia). La stessa cui, ne Il ricordo di Delia, il poeta immagina di poter dare un ultimo bacio, “…Ma mi è sfuggita di mano e fra le braccia / mi son trovato il vuoto. La memoria, / pietosa della mia solitudine, / l’ha rimpiazzato / col profumo di pèsca delle sue sciolte chiome”. Oppure semplici descrizioni – semplici per modo di dire, perché anch’esse cariche di ricordi: “Le foglie tinniscono e le note / di Amapola vagano nell’aria. / La sera una preghiera ad occidente / dove il sole si perde alla marina. / Tutto è rosso. Il mare un luccichio…” (Amapola). Vi si trova un tesoro di amore che apre il cuore alla contemplazione del tutto come opera mirabile del creatore (che il Pardini nomina con la minuscola non certo per sminuirlo, ma forse per timore di enfatizzarne troppo la nascosta perenne presenza: si veda Se non esistesse).
Il Pardini ci ha abituato nelle precedenti opere alle variazioni di tono e, mantenendo negli ultimi versi della presente raccolta quello spirito leggero ed ironico già manifestato nella sua produzione in versi, pone proprio a chiusura di tutto un asterisco: sì, il titolo è proprio *. Le parole scritte sotto di esso) sono veramente una mirabile conclusione per un’altrettanta mirabile raccolta; vale la pena ricordarle tutte: “Non è che tutti quanti applaudirono / alla lettura delle poesie, / anzi qualcuno criticò quei testi / trovandoli melensi. Ma l’autore / si ritirò in silenzio nello spazio / che gli altri gli avevano concesso / per pietà, felice di trovarsi accanto / ai versi di Catullo. E tutto tacque. / Ognuno si rinchiuse dentro sé, / carico di memorie e saudade, / per rivivere momenti ormai sfuggiti / di un’età che brillava quanto il mare”.
C’è chi sostiene che, dopo la morte di Edoardo Sanguineti (2010) e di Andrea Zanzotto (2012), entrambi “espressione di una confusione disarmonica del sentire espresso in versi”, resta una “giovane e giovanissima poesia, dispersa nella propria potenza quantitativa, ma come sospesa in attesa di un contesto che sappia accoglierla e coltivarla, nelle dinamiche di un processo artistico refrattario (per fortuna?) al consumo immediato, e che richiede decenni per affermarsi. Cosa, in questo momento, estremamente problematica”. Una considerazione amara sulla poesia italiana contemporanea, e forse non del tutto vera. Ci sono poeti che, non necessariamente giovani o giovanissimi, trovano un loro modo autentico di esprimere il senso della ricerca umana del vero, del bello, del bene – pur nella consapevolezza dell’esistenza del falso, del brutto e del male nel mondo d’oggi come in quello del passato. Poeti che trovano il modo di esprimersi anche in versi di facile lettura, non astrusamente arzigogolati, e la cui essenza poetica non risiede nella forma complicata del verseggiare, ma nella nitidezza dell’espressione, che proprio per scelta rifugge dalle complicazioni ermeticheggianti di troppi scrittori contemporanei.
Uno di quelli che non si sono indirizzati sulla via della complicazione è, di certo, Nazario Pardini, che mostra in tutto l’arco della sua produzione poetica di non cedere alle mode. C’è in lui, sì, molto di “classico”, ma opportunamente attualizzato; i suoi studi letterari emergono con vigore dal suo modo di scrivere in versi, ma con personalità indiscutibile. C’è un che di foscoliano nel verseggiare del Pardini, il quale sa ammantare lo spirito romantico tipico della “rimembranza” (che è anche leopardiano) con quello stile dolcemente neoclassico, che riecheggia la nitidezza dei versi catulliani (come non ricordare, in proposito, la foscoliana A Zacinto in parallelo ai versi di Catullo sull’amata Sirmione?). Eppure non c’è alcuna dipendenza dai modelli di riferimento, perché lo scrivere del Pardini spazia liberamente nei campi già arati da tanti illustri predecessori, il cui studio si avverte bene (forse va considerato un dato “obbligato”, da emerito professore di Letteratura qual è): e ciò è tutt’altro che un limite, anzi è un pregio, perché il Nostro sa scrivere ispirandosi alle loro opere, però non soccombe mai alla loro auctoritas scadendo in improvvidi manierismi, e rifugge da inutili sperimentalismi.
Davvero Dagli scaffali di Nazario Pardini esce una volta ancora uno Scrittore con la maiuscola.
Marco Zelioli
Nazario Pardini, Dagli scaffali della biblioteca, pref. Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2020, pp. 120, isbn 978-88-31497-30-5.