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“Andar via” di Pasquale Ciboddo

Recensione di Fabio Dainotti

È certamente la terra, e segnatamente quella della Sardegna, culla della civiltà pastorale, il fondamento esistenziale per Pasquale Ciboddo, che nel suo libro di poesia, Andar via (impreziosito da un dipinto di Franca Maschio in copertina e corredato dei giudizi critici di Antonio Piromalli, Franco Fresi, Giuseppe Fiamma, Elio Andriuoli, Eugenio Maria Gallo, Enzo Concardi), rievoca, in toni a tratti anche queruli ed elegiaci (E cosa rimane), ricordi da conservare «nel museo del cuore» (Come dimenticare).

Il poeta canta, non sottacendone l’asprezza (La poesia della vita), un mondo fatto di «pascoli sofferti», di «sudore e fatica» da «rispettare» (con il contraltare dei furbi e dei profittatori che ne ridono) e insieme la semplice vita «…/ dei tempi andati, / pieni di vita, di feste, / di gioia di vivere /…» (È pena che tormenta), che corrispondono, sul piano personale e privato, all’infanzia fantasticante, quando, sotto gli occhi trasognati dell’autore fanciullo, i gesti sempre uguali delle donne assumevano contorni favolosi: «…/ mia madre / a luce di ‘acetilena’ / accanto al focolare / la sera dopo cena / sino a tarda notte / rammendava / con macchina da cucito / a manovella / pantaloni e camicie / strappate di mio padre. /…» (Invece era). 

Prendono vita paesaggi dell’anima di una geografia interiore ma anche archeologica (Era l’antenna del tempo), rievocati sul filo della nostalgia (Luoghi e colori) e rivissuti sensorialmente come «gusti e sapori» e «profumi» (Ora è nella memoria) o con descrizioni orientate verso un fresco naturalismo; paesaggi che si situano tra memoria e storia (sulla retrospettiva storica notevole la descrizione della condizione concentrazionaria nei campi di sterminio in Per non dimenticare). Numerosi i lessemi rientranti nel campo onomasiologico di quella civiltà; una parola chiave, ma la definirei parola-testimone, è «stazzi». Della «civiltà agreste» e pastorale il poeta rivendica i valori e insieme l’importanza delle «radici». C’è qualcosa di sacrale in questa «vita dura di caprai» dai «lunghi capelli» che indossano «…/ casacca / di pelle conciata / e larga cintura / di cuoio crudo / attorno ai fianchi /…» (Vita di caprai). E forse non è solo sogno o sterile vagheggiamento, ma ardito disegno: fare dell’arcaico un progetto di rinascita (Tornare ai valori). Se è vero che il duro lavoro dell’allevatore impedisce un’adeguata acculturazione, d’altro canto esiste anche la cultura in senso lato, quella che fa sì che sia più ‘colto’ un contadino, cresciuto a contatto con la natura, di tante ‘teste d’uovo’ d’oggi (Fonti di altro sapere). 

E spesso la natura (una natura romanticamente animata, composta di semplici creature che parlano un loro linguaggio senza «parole»), che pure è «nostra madre», si mostra «ostile», scatenando un vento rabido, personificato in un «discepolo del male», o si rivolta contro l’invadenza dell’uomo, dando luogo a terremoti e sommovimenti tellurici (Allora); a tal proposito si leva alto il monito dell’autore, che ammonisce gli uomini in tono esortativo: la natura va rispettata. Tra gli elementi naturali, anche il mare, «… arbitro / della vita sulla terra /…» (È guardiano), riveste una sua importanza; l’elemento equoreo è infatti presente nella poiesi di Ciboddo. Opposta alla vita naturale è quella che si conduce nelle città; l’opposizione città- campagna corrisponde alla contrapposizione tra naturalità ed artificio.

Molte altre sono le tematiche trattate nell’ambito di una poesia civile mossa dall’indignatio (alla raccolta di Ciboddo non è estraneo l’impegno civile, di cui parla nell’acuta prefazione Maria Rizzi): il dramma dell’emigrazione (Esodo, ma anche E ordine e pace) e ad essa connesso il divario Nord/Sud; il tema ecologico (il disboscamento selvaggio e l’equilibrio idrogeologico, lo scioglimento dei ghiacciai, l’inquinamento); la povertà e la fame (soprattutto negli anni di guerra); i lavori precari e pericolosi o mal pagati; la droga e i suoi effetti demoniaci; il timore dello sterminio causato da una guerra nucleare; la piaga degli «incendi estivi» (Ma è disumano) e quella della sofisticazione alimentare (Oggi). Non manca qualche componimento di carattere metaletterario: basterà citare il «rammendo», che diventa metafora della scrittura, e la «trama» e «l’ordito», che richiamano l’etimo della parola ‘testo’.

Attraversa tutta la raccolta una delicata vena esistenziale: ed ecco la solitudine, una «prigione di solitudine» (Che c’è di concreto), quasi una sfuggenza; ma c’è anche l’elogio della vita solitaria, propizia agli studi e vista come risorsa e ricchezza per guardarsi dentro e trovare alimento per la scrittura; l’amore, che pure è tra gli interessi del poeta; il pensiero della vecchiaia, che trova il correlativo oggettivo nell’immagine del tramonto («…/ in faccia al sole / che cala in mare /…», Chi potrà negare), e del destino di morte che attende tutti, magari dietro «curve impensate» (È meandro d’impatto), con l’inevitabile corredo di rimpianto per la «primavera di vita» (Sarebbe dolore) e per le gioie della giovinezza.

Di fronte a un presente degradato e corrotto e al pensiero della finitudine, la via di fuga, oltre al ritorno all’infanzia e alla nostalgia della terra (si arriva a un’equazione tra l’io e la terra in Tutto si perde) di cui si è detto, è la religiosità, la fede, anche se Dio appare a volte lontano e indifferente, un Dio che «tace» (Esodo), e sembra trasparire in questi momenti un’ombra di pessimismo cristiano (ma la silloge risente anche di certe conclusioni sconsolate e pessimistiche dei frammenti dei lirici greci come in L’esistenza, o in Meglio non nascere). Comunque l’io si mostra interessato al discorso sulla «trascendenza», i testi sterzano sovente in direzione del religioso, dell’«Oltre», soprattutto nell’explicit, dove si respira l’abbandono a una «fede» salvifica. 

Interessanti dal punto di vista stilistico certe riprese dall’alto, con i «…/ piccoli movimenti / di affamati roditori /…» (Sempre in agguato) visti dall’occhio del rapace, che simbolizza «…/ La morte / sempre in agguato /…» (ivi). La rima baciata pare voler sottolineare i punti di maggior concitazione lirica.

Questo e molto altro si riscontra nei testi di Pasquale Ciboddo (che utilizza tessere montaliane, termini del linguaggio specialistico, detti proverbiali e espressioni bibliche), con l’apodittica sentenziosità, non disgiunta da una capacità osservativa e di trasfigurazione del reale, di chi negli anni ha maturato una “sagesse” da rivelare ai lettori nel quadro di una concezione della poesia concepita non come semplice sfogo, ma con l’ambizione di essere di una qualche utilità agli altri; si può parlare in tal senso di istanza pragmatico-referenziale. Logico dunque che tra le figure di pensiero sia usitato l’epifonema, soprattutto in clausola. Il tono è quello tipico di una poesia sapienziale; e tale si qualifica nel testo intitolato proprio Ed è sapienza, ma vedi anche Nulla si ridesta e altre poesie ancora; e assume anche movenze profetiche e apocalittiche: «…/ La natura / è nostra madre. / Ci aiuta a vivere sereni / lontano da rumori / troppo intensi / che incitano a litigare / gli uni con gli altri / mai contenti di nulla / e invidiosi di chi sta bene. / È così che nascono le guerre / tra tutti i popoli. / È sarà la fine» (E sarà la fine); un ammonimento valido e di stringente attualità anche oggi, per tutti.

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