venerdì, Aprile 19, 2024

Area Riservata

HomeFestival/RassegnaFestival Opera Prima di Rovigo

Festival Opera Prima di Rovigo

Recensione di Paolo Verlengia

Andato in scena dal 15 al 19 Giugno a Rovigo

Una cerimonia, forse un “rito di passaggio”: il Festival Opera Prima di Rovigo compie diciotto anni, e li celebra in un momento storico cruciale, stretto tra ripartenza (post Covid) ed urgenza (per la tragedia ucraina). Una “maggiore età” che nasconde una anzianità virtuale anche più profonda (la prima edizione di Opera Prima è datata 1994 …), ma il risultato non sta tanto nella soglia storica varcata quanto -per contro – in una conservata giovinezza. Nell’aver preservato, ovvero, il carattere tipico che caratterizza il concetto stesso di festival: non già una vetrina per il consumo di questo o quello spettacolo, ma l’esperienza intensa, finanche faticosa di giornate intere fatte di relazioni, scambi, visioni.

Cinque giorni carichi di stimoli e suggestioni diverse, innervati da traiettorie creative divergenti che lasciano il senso di un paesaggio performativo in tensione. Quattordici spettacoli, due concerti un, laboratorio ed un convegno, uniti dal filo rosso di un ciclo di incontri mattutini con gli artisti, tenuti alla vigilia ed all’indomani delle singole esibizioni. Numeri che rendono solo in parte l’impegno massivo profuso in prima persona da Massimo Munaro e da una intera squadra di collaboratori e volontari, capaci di declinare l’abnegazione con la luce di una gioia autentica, interiore quanto tangibile.

Ripartenza ed urgenza, dicevamo. Perché non c’è tragedia, non c’è dolore a cui l’essere umano non risponda con il farmaco della festa, per celebrare l’oggi, il qui ed ora che è -ad un tempo- sorgente originaria del teatro e primato del tempo presente: la dimensione dell’azione, del cambiamento possibile, e dunque dell’utopia, intesa come meta da raggiungere. Ce lo ricorda il danzatore libanese Bassam Abou Diab, raccontando di una guerra divenuta evento ciclico, quasi abituale per il suo popolo. Racconto che coagula in “piazzole di sosta” poste a margine della performance “Under the Flesh, fatta diesplosioni di energica corporeità, di danza intesa non come esercizio estetico ma come risposta vitale, istintiva e strumentale alla minaccia fisica delle bombe. Di fronte all’urgenza del tema -veicolato con eccentrica genuinità- le proporzioni della performance si riducono, cercano di mimetizzarsi con il tempo minimo che governa la quotidianità cittadina, con la sua comunicazione fatta di brevità emotiva, più simile ai moderni emoticons che alla struttura compiuta dei testi scritti.

Immediatezza della performance: è una delle affermazioni forti che sembrano riecheggiare da Opera Prima 2022. Un sentimento di urgenza alquanto diffuso nella comunità dello spettacolo in questo preciso frangente. Una tendenza non inedita nel panorama dell’arte performativa contemporanea, ma che oggi riappare come stratificazione ultima, come esigenza epidermica innescata dagli eventi dell’ultimo biennio.

E’ il caso di “Blind Date, incursione urbana di Giselda Ranieri, in cui la danza diviene evento sociale repentino, intrecciando le corde dell’improvvisazione e dell’esperimento artistico: un incontro tra sconosciuti, un duetto di movimento corporeo composto all’impronta sulla musica realizzata in estemporanea da un musicista del luogo (nel caso specifico, il batterista Iarin Munari).

E’ il caso -parimenti- di “Fio Azul, concerto per sole voci del Collettivo Rosario, formazione di dieci elementi coordinati da Charles Raszl. Un vero e proprio numero da buskers, capace di coinvolgere astanti e passanti nell’atmosfera floreale di una body music, una “musica corporea” prodotta dal puro suono dei palmi contro le braccia, le gambe, il torso ed i palmi stessi, mentre i corpi si muovono in cerchi e linee elementari ma perfettamente armonizzate con il suono delle voci, che si intersecano sulle melodie di canti popolari tratti dalla tradizione brasiliana e mediterranea.

A questa schiera di proposte, possono essere affiliati anche quelli che potremo definire “esperimenti” teatrali o “passaggi di esperienza” dall’artista al pubblico. C’è, ad esempio, “I’ll write you something new di Maria Luisa Usai, in cui i partecipanti si alternano in gruppi e sono invitati a scrivere una lettera ad un destinatario sconosciuto, mentre Marigia Maggipinnto con il suo Miss Lala al Circo Fernando apre a noi ospiti le porte di una casa della memoria, abitata dalla fisicità di oggetti da cui sprigiona la vita che li ha attraversati. “Tanzt, tantzt. Sonst sind wir verloren!” : ovvero, “ballate, ballate, altrimenti siamo perduti!” Così ripeteva la grande Pina Bausch, con cui Marigia ha lavorato per anni. La danza come conoscenza del movimento e dunque del mondo naturale. L’arte come disciplina sapienziale che ha la capacità di chiarire con nettezza extraordinaria la quota di rivelazione che è contenuta nei dettagli minimi del nostro tempo ordinario, ma che spesso non vediamo senza l’ausilio di un’epifania.

Accade dunque che, se da un lato i tanti topoi legati al Covid (fragilità, distanziamento, sospetto reciproco, controllo sociale, e infine paura, dolore, perdita … ) non maturino ancora un tempo utile per una gestazione che li formalizzi nei materiali espliciti di uno spettacolo, essi aleggino sottotraccia alla stregua di un umore generico che muove gli artisti all’azione, come rivendicazione del corpo innanzi tutto.

Corpo che in teatro vuol dire anche spazio. La città di Rovigo si trasforma in teatro diffuso: Piazza Vittorio Emanuele, Piazza Garibaldi, il Giardino Due Torri si riconvertono istantaneamente in palcoscenici effimeri, capaci di catalizzare l’attenzione di pubblici effettivi e spettatori di passaggio, ma anche di armonizzare senza forzature con i riti della vita cittadina, colta nelle pause amene del caffè pomeridiano o dell’aperitivo. Una “città-corpo” che si muove e che cresce, estendosi anche sull’altro versante urbano: l’asse tracciato dal Teatro Studio al Chiostro degli Olivetani ed al Museo dei Grandi Fiumi, dove prendono prevalentemente vita gli spettacoli serali.

Su questo punto risiede un’altra istanza da leggere in controluce: Opera Prima 2022 registra un’esigenza di riappropriazione degli spazi pubblici, della città come luogo che ha un senso solo nel suo uso molteplice e sociale. L’artista si fa interprete di questa richiesta collettiva e se ne prende cura, depurandola da ogni tossina di ribellione, frustrazione o disarmonia. Un esempio emblematico è dato dalla magnifica performance del danzatore israeliano Gil Kerer. Magnifica perchè irradia costantemente luminosità e leggerezza pur trattandosi di una coreografia tecnicamente rigorosa. Kerer, coadiuvato da Lotem Regev, danza sulle note del “Concerto per mandolino e archi in Do Maggiore di Vivaldi, reinterpretando la misura della musica barocca con gli strumenti della danza contemporanea. Ne viene fuori un ibrido perfetto, scevro da forzature qualsivoglia, composto di tre tempi (più un intermezzo senza musica dove si inflitra con grazia l’elemento recitativo). Una performance urbana – per una volta – priva ammiccamenti, capace di instaurare dialogo e coinvolgimento tramite la pura ricchezza artistica del lavoro proposto.

Ibridazione, corporeità. Primato del corpo e della musica che raggiunge il climax con “Mbira, format integralmente ibrido di Roberto Castello: un concerto animato dalle percussioni di Marco Zanotti e dalle sonorità esotiche di Zam Moustapha Dembelé, scolpito infine dalle evoluzioni coreutiche di Ilenia Romano e Giselda Ranieri. Un concerto attraversato da momenti divulgativi e didascalici, mirati a contrapporre ai limiti del nostro sistema cognitivo gli strumenti preservati da una società orale come quella africana, dalla quale proviene un più ampio concetto di festa, che prende vita sul palcoscenico ma mira a contagiare la platea.

Tentando una subitanea “mappatura” artistica del Festival, sembra affiorare il disegno di due territori adiacenti: da un lato lo spettacolo come rito collettivo, l’improvvisazione come celebrazione del momento presente, l’errore ed il fallimento della performance come possibilità calcolata, contrapposta al concetto di spettacolo come risultato di un disegno registico antecedente che lo renda quanto più solido e costante nelle sue repliche. Dall’altra, per l’appunto, un nucelo di spettacoli maggiormente strutturati.

Il volto di Karin della giovane formazione toscana Cantiere Artaud è emblematica di questo secondo approccio artistico. La materia del ricordo – ispirata all’opera di Ingmar Bergman – viene indagata come sostanza fantasmatica che partecipa attivamente nell’impasto percettivo del presente. Sull’onda di questa idea generativa, il disegno registico incede con pervicacia “ortodossa”, percorrendo funambolicamente un filo sottile che sorvola costantemente la caduta nel rischio di formalismo e la sublimazione poetica della tecnica, come avviene in determinati momenti in cui una ricercata perfezione d’esecuzione riesce a squarciare la propria volta celeste, librandosi in passaggi di intensità autentica, ora lirica ora perturbante.

La parola drammaturgica – centellinata in rarefatte bolle di voice off ne “Il Volto di Karin torna al centro della scena in “Report to an Academy, spettacolo della compagine greca Zero Point Theatre Company diretta da Stavvas Stroumpos, collaboratore da oltre vent’anni di Theodoros Terzopoulos e primo divulgatore del suo metodo. Un lavoro corale, in cui il linguaggio corporeo accompagna ed ingloba costantemente quello verbale. Uno schema ciclico – secondo cui un corifeo si stacca momentaneamente dal coro – frammenta la struttura monologante del racconto di Kafka e la trasfonde nel magma dionisiaco della tragedia greca (gli attori recitano in greco, con l’ausilio della proiezione di sovratitoli in italiano). Un lavoro di ricerca, che appare non limitato alla messinscena in oggetto e che dà mostra di sé nel livello di sorprendente intensità espressiva raggiunto dai sette giovani interpreti. Una recitazione convulsa, intesa come flusso di energia che scuote e percuote il corpo dell’attore unitamente alla parola del testo, fino a condurle al limite di un processo trasformazionale che nel tempo tende alquanto ad escludere lo spettatore.

La drammaturgia torna definitivamente protagonista con lo spettacolo proposto da Teatro del Lemming. La compagnia di Rovigo, divisa senza risparmio tra la cura organizzativa del festival e la partecipazione artistica nel festival stesso, con il suo “Amleto sceglie di portare in scena il testo più emblematico della tradizione teatrale d’Occidente. Il primo dato da registrare risiede nel ruolo del pubblico, sempre al centro dell’attenzione nella concezione registica di Massimo Munaro: questa volta gli spettatori non vengono suddivisi in gruppi (coerentemente, lo spettacolo non conosce repliche nel corso della serata). La scena, inizialmente tagliata sull’asse orizzontale da uno schermo, si rimodula via via in tutte le direzioni, obbligando lo sguardo a sintonizzarsi continuamente dal piano lungo a quello strettissimo. “Fotografia” di un teatro che vela e che rivela ad un tempo, questo meccanismo sbilancia sul corpo della scena il compito di stimolare lo spettatore al ruolo attivo e partecipativo, protagonistico infine. L’allocuzione alla platea – fatta ora di sguardo, ora di gesto, ora di parola esplicita – completa la circolarità di questa poetica, che si compie drammaturgicamente con un rovesciamento ultimo: la folla, la città, il corrotto regno di Danimarca dai connotati sempre più universali, chiamano un Amleto che non risponde, non compare, incarnandosi dunque nel pubblico stesso. Varcata la soglia di un’immedesimazione fatta di straniamenti plurimi (cambi di registro linguistico e stilistico repentini, giustapposti alla stregua di un collage di dimensioni macroscopiche), i connotati di tutti i personaggi si fanno liquidi, sdoppiandosi ed evaporando infine, precipitando così il dramma shakespeariano nel dedalo della materia psichica, in un pendolo irredimibile di incubo e miraggio.

Se Opera Prima 2022, pur nel sua composizione eterogenea, celebra un primato dello spettacolo come esperienza sensoriale, fatto di coinvolgimento corporeo dello spettatore, ora musicale ora visivo, non sorprende la presenza solo residuale del teatro di narrazione. Un codice performativo che, per contro, al lordo delle sue molteplici proliferazioni (dal monologo di impianto più tradizionale alla stand-up comedy) si fa sempre più dominante nei cartelloni delle nostre città, qui è rappresentato da due spettacoli molto diversi tra loro: “Radio Clandestina di Ascanio Celestini, spettacolo storico che torna dopo venti anni a Rovigo, dove conobbe una sua prima affermazione, e “Una riga nera al piano di sopra, dell’attrice ed autrice rodigina Matilde Vigna.

La parola fluida, torrenziale di Celestini, tecnicamente scolpita nelle forme di un sermo popolare confidenziale, rovescia il rapporto tra Storia e Mito a favore della prima, ma riattiva una dialettica interna tra i due poli, in una luce che gli eventi d’Ucraina tingono di nuova, sinistra significatività. Un mito che da verità universale, superiore a quella fattuale, trasmuta nelle forme di una narrazione falsata della verità storica, facendosi strumento velenoso di facile contagio che risponde al nome di propaganda.

Piano universale e relativo che tornano a fondersi nel poderoso monologo di Matilde Vigna, dedicato alla tragedia dell’alluvione del Polesine avvenuta nel 1951. Una tragedia del territorio, resa amaramente più abnorme dalla crisi idrica di questi giorni, che spalancava le possibilità di un binario scorrevole per una narrazione storiografica della vicenda, scenicamente statica, tutta affidata alla resa emozionale dello spettacolo. Il lavoro di Matilde Vigna ribalta ogni aspettativa, presentandosi innanzi tutto come uno spettacolo dall’impianto scenico impegnativo ma mai fine a se stesso: il disegno registico costruisce due piani separati, eppure intersecati ed interconnessi. Due livelli che sono narrativi – temporali e drammaturgici – ma anche fisici, come i piani di una casa, che soprattutto in passato ricoprivano funzioni specifiche e strategiche.

Il doppio livello drammaturgico fa scorrere su rotte parallele il racconto irresistibile di due vicende, separate da un tempo cronologico e valoriale: la criticità dell’oggi, la precarietà generazionale in una società paradossalmente costruita attorno allo status del possesso fungono da tapis roulant che muove la temporalità dello spettacolo, conferendogli un andamento corposamente connotato dalla cifra “cabarettistica”, godibile quanto graffiante. La vicenda tragica subentra ma non detta mai il tono né il tempo dello spettacolo, salvandosi da ogni trattamento retorico. L’evento storico, per nulla impoverito d’importanza, si fa anzi prossimo, tattile, perché transustanziato attraverso il teatro in fattore umano: dimensione di carne e anima che annulla il tempo.

Seguendo un corso non lineare, fatto di ripiegamenti labirintici, il percorso tracciato da Opera Prima 2022 descrive una lenta e rituale ascesa del linguaggio dello spettacolo, dall’accumulo del segno acustico-visivo al ritorno progressivo della parola, fino al suo superamento tramite se stessa. In questo senso, il disegno trova una ideale chiusura nel punto iniziaticoda cui il Festival è partito: “Sentieri #9 di Azul Teatro, una performance site specific collocata fuori dal circuito urbano, all’interno delle aree boschive del parco dedicato ad Alexander Langer, polmone verde della città ma anche contenitore delle sue stratificazioni storiche.

Facendo fede al suo nome, Sentieri è primariamente un cammino, un percorso esperenziale che incede con il metro paziente dei passi e guadagna lentamente grani di significato, accumulando tasselli destrutturati di discorso. La performance artistica si fa strada esclusivamente all’interno dello spazio d’azione concesso dal canale percettivo del singolo partecipante. Lo sguardo, liberato dai percorsi guidati della fruizione consueta, è anzi impegnato su due azioni concorrenti che solo nel tempo addivengono ad una sintonia: la sorveglianza fisica, finalizzata ad assicurare un contatto stabile sul terreno o a districare il movimento dai rami più aggettanti, e la percezione di ciò che respira oltre il tragittopercorso, un pulviscolo di esistenza che freme, che esiste e dunque reclama attenzione. Una voce netta, insistente quanto silenziosa, sonora mai oltre il limite inscritto nel fruscio del vento tra le foglie, il movimento delle foglie sulle foglie, il gorgoglio dell’acqua nell’ombra.

La materia organica del bosco mostra progressivamente indizi di un passaggio umano: pagine di libri, parole affidate alla memoria effimera della carta, un vestito di tessuto leggero, lasciato ad asciugare o dimenticato per sempre. C’è l’eco di un canto che si perde lontano, inghiottito in una piega “quantistica” del tempo in cui le ore, forse, si misuravano tramite il rito della vocalità.

La stagione, ovvero la temporalità della natura, si mostra nella sua potenza di realtà non convenzionale, si erge monumentale al di sopra degli anni, delle ore, degli strumenti di misurazione cronologica. Raggiungiamo un rudere, altodavanti a noi come una luna povera. Una parete diroccata, consumata dall’usura e dall’abbandono, che un tempo è stata edificio e dimora, ha contenuto i giorni, i gesti, le parole, i pensieri di chi l’ha abitata. E prima ancora è stata progetto, immagine estrema della fiducia nel futuro, speranza umana-troppo-umana che ora si sgretola. E ci somiglia. Polvere, frammento, minuzia: tutto somiglia così tanto a quella promessa di felicità che la vita ha disatteso, fatalmente.

Tra le fessure della parete, per un attimo appare un baluginio, forse è solo un’illusione ottica dovuta alla calura, forse è un effetto intenzionale della performance: il confine è sempre impalpabile e la sua sottigliezza fragile rende sostanza a quella polvere, quel pulviscolo di accadimenti reali e potenziali che ci vibrano attorno.

Finalmente un corpo, la prova inconfutabile di una presenza. Eppure compare solo di spalle e solo per un momento. Gli unici corpi che si lasciano guardare somigliano agli alberi e le piante che li accolgono in pose appartenenti ad un mondo altro.

Di là dagli alberi, l’eco di una risata e il calpestio di un inseguimento fatto per gioco costruiscono in un secondo la scenografia immateriale, tutta ideica dell’innocenza, quel tempo di noi stessi a cui tutti sentiamo d’esser appartenuti, da cui tutti siamo scivolati via, senza accorgercene.

Ed ancora il bosco risuona, si fa incessante, viaggia all’unisono con il battino cardiaco: una frase, pronunciata in lingua straniera, riattiva la nostra abitudine al dialogo ma subito la sospende nello spazio libero dell’enigma, dove il vuoto ed il pieno si reggono in equilibrio, si compenetrano. Da qualche parte, in una stanza invisibile, qualcuno pizzica delicatamente le corde di una chitarra, come si fa quando si suona per se stessi, per accompagnare il tempo che scorre e che tuttoattraversa, anche ciò che posa. Ed allora, nulla è mai fermo, perchè tutto vive. Ed allora, ogni cosa conserva l’eco di unrespiro, anche il silenzio.

Il lavoro di Azul Teatro mostra la cifra preziosa della sottrazione, declinata in misura pressoché unica su di un intero pentagramma di sfumature traslucide e di pure trasparenze. Nello spazio in cui Sentieri si rimodula di volta in volta, in forma inedita ed integrale, non trovano posto installazioni o stazioni di recitazione itinerante, ma solo inviti, da accettare o declinare a discrezione di ciascuno, per costruire a metà strada con i partecipanti un paesaggio immaginifico, magrittianamente sospeso tra l’evidenza delle cose e la loro esperienza attraverso di noi.

 

CREDITS:

Festival OPERA PRIMA 2022 (Rovigo, 15-19 giugno 2022)

PROGETTO E DIREZIONE: Associazione Festival Opera Prima E.T.S.

COORDINAMENTO ARTISTICO: Massimo Munaro

AMMINISTRAZIONE E LOGISTICA: Katia Raguso

ORGANIZZAZIONE E UFFICIO STAMPA: Diana Ferrantini

SITO WEB: Alessio Papa e Massimo Marchetto

GRAFICA E COMUNICAZIONE: Marina Carluccio

STAFF TECNICO: Alessio Papa, Roberto Lunari, Matteo Fasano, Paolo Rando, Silvia Massicci

ASSISTENZA: Fiorella Tommasini, Chiara Elisa Rossini, Leonardo Piana, Chiara Ferronato, Ilaria Fantozzi

BIGLIETTERIA: Elena Fioretti, Michele Bacchiega

Il programma completo del festival è reperibile tramite il seguente link:

https://festivaloperaprima.it/it/edizione-xviii-2022/spettacoli

RELATED ARTICLES

Most Popular