L’amore e i rapporti affettivi al tempo del cellulare.
Dalla pellicola al palcoscenico si rinnova il successo di un racconto che stigmatizza la realtà suscitando amarezza e cinici risolini.
Un film di culto trasposto in teatro senza perdere nulla della forza dirompente con la quale ci ha messo di fronte, tutti e ognuno per sé, alle nuove abitudini, talvolta malsane, che abbiamo acquisito sviluppando una dipendenza dallo smartphone, divenuto ormai un’estensione della nostra mano, un ampliamento della nostra memoria e lo scrigno dei nostri segreti.
L‘apparecchio ci offre una stampella psicologica, ci sostiene e ci supporta quando siamo soli e vogliamo comunicare col mondo, ma anche quando siamo in compagnia spesso disdegniamo la conversazione per rifugiarci nell’universo virtuale che si apre su quel display, come le malinconiche coppie al ristorante che non si parlano e chattano con amici lontani.
La vita interiore, che un tempo si confidava al diario, oggi è concentrata nella memoria della sim, accessibile con un rapido clic.
Il film omonimo di Paolo Genovese che ha il primato del numero di remake, affronta i temi universali della crisi dei sentimenti di coppia e del tradimento che diventano un metodo di sostegno a un matrimonio corroso dal tempo, ma anche dell’omosessualità spesso derisa anche in ambienti culturalmente progressisti e dell’amicizia che camuffa il non detto e non si apre alle rivelazioni.
Paolo Genovese debutta nella regia teatrale portando in scena il suo pluripremiato film del 2016, con gli stessi dialoghi e le battute entrate nell’uso comune, che a teatro fanno molto ridere: “Se fosse, che fai, glielo dici?” oppure “Non trasformare ogni discussione in una lotta di supremazia” o ancora “Bisogna imparare a lasciarsi”, “Siamo tutti frangibili” e “Se ami qualcuno lo proteggi, da tutto”.
L’impianto drammaturgico era già teatrale, con sette persone a cena in una casa che, anziché parlare di amenità, si sfidano nell’intimità più recondita, con un’autentica discesa agli inferi, mettendosi a nudo nel gioco crudele di condividere messaggi e telefonate personali, fino a scoprire di essere “Perfetti sconosciuti”.
Dalla commedia brillante la vicenda vira al dramma esistenziale, con colpi di scena e rivelazioni inaspettate e tuttavia, forse perché ormai la trama è nota e così anche l’epilogo, prevale la vis comica e ogni battuta scatena risate e applausi.
In una sera di eclissi lunare Eva e Rocco invitano a cena gli amici storici di lui insieme alle mogli: Cosimo con Bianca, Lele con Carlotta e Peppe senza la nuova compagna Lucilla che è malata. Parlando di una coppia che si è separata scoprendo il tradimento sul cellulare, Eva propone l’esperimento di rendere pubblici messaggi e telefonate che dovessero giungere a ciascuno, poiché nessuno ha niente da nascondere, sostiene.
Rifiutare significherebbe ammettere qualcosa di inconfessabile, così tutti accettano a malincuore. Tradimenti, fallimenti, piccinerie, bugie, pregiudizi, insoddisfazioni, sogni infranti e sarcasmo si susseguono e si intrecciano, dapprima come sotterranei supporti a matrimoni in crisi, poi come detonatori di una fiducia spezzata nell’amore e nell’amicizia.
Ottima la scelta del cast di attori, che caratterizzano i personaggi nei rispettivi ruoli, spontanei, impacciati, apprensivi, coinvolgenti, ipocriti, ingenui proprio come ce li aspettiamo: Dino Abbrescia, Alice Bertini, Marco Bonini, Paolo Calabresi, Massimo De Lorenzo, Anna Ferzetti, Valeria Solarino.
Felice la soluzione scenografica (scene di Luigi Ferrigno) di delimitare degli spazi nell’ambiente unico della casa dove si svolge la cena, ponendo sul fondo la cucina in penombra quando non utilizzata, a sinistra il bagno accennato da una parete illuminata in trasparenza (luci di Fabrizio Lucci) e sul proscenio una ringhiera che evoca il terrazzo dove qualcuno esce a prendere aria per spezzare la tensione.
Il finale, consolatorio come si sa, vede tutto il gruppo di amici scattarsi un selfie davanti all’eclissi, sulle note di Perfetti Sconosciuti di Fiorella Mannoia.
Tania Turnaturi