In scena 11 e 12 luglio al Teatro Vascello (nell’ambito del Roma Fringe Festival).
Tutti, chi più e chi meno, si nasce addestrati, o meglio irretiti. Da Religione, Istruzione e Famiglia, in primis. La società è formata dalla cosiddetta “triade”. E la Donna, non può essere da meno. La Donna, piuttosto, deve essere addomesticata. Una donna che ha il compito di badare alla casa, alla prole, alla famiglia e che non può uscire allo scoperto e mostrarsi (o ridefinirsi maschilizzata nelle scelte lavorative e di vita) in maniera anticonvenzionale.
Se prende l’iniziativa o fa quello che per natura è stato schematicamente associato da sempre all’uomo, finisce per inibire o per essere, peggio ancora, bollata come pazza. Nella fattispecie, per poter emergere e farsi notare, ci si deve mettere in riga (o meglio in mostra) sui social, dove l’esigenza dell’apparire cozza con quella dell’essere, sublime ricerca del proprio essere. I canoni della bellezza trasmessi per mezzo dei principali media, prima la televisione e poi da social come Instagram, condizionano inesorabilmente l’educazione sessuale delle donne, costretta a combattere con coercitivi sensi di colpa e con le prassi tradizionali di seduzione.
E le madri, nell’ansia esigente di uniformarsi al costituire e sentire comune, per la paura di avere una figlia che potrebbe restare ai margini del “giro che conta”, fanno di tutto pur di riempire di aspettative di genere (o de-genere) i giochi della loro infanzia e adolescenza. Così, quando ci si affaccia all’età adulta, l’immagine stessa dell’Uomo è specularmente deformata. Tutto appare come un potenziale pericolo e voracemente non conforme alle false aspettative generate. È da lì che nascono i mostri della psiche. Mostri partoriti dal subconscio che nella mente generano voragini difficilmente ricomponibili.
Ed è così che si mostra, deformandosi, la stessa autrice Antonella Salvatore, attrice che tiene le redini del futuro della bistrattata figlia interpretata da Raffaella Zappalà, alla quale viene destinato un mercimonio. Il suo corpo dato in pasto a uomini potenzialmente famelici, capaci solo di desiderare e mai di amare. In fin dei conti, a qualcuno è stato mai insegnato qualcosa riguardo la padronanza dell’amore? Una visione logicamente pessimistica, nevralgicamente sfrontata nella sua missiva, non priva di un umorismo caustico, quasi solforoso, affidata ad un linguaggio del corpo muto e composito di stadi emotivi che è il punto di forza della rappresentazione.
Il corpo della madre, consegnato all’immagine che ha di sé, non può essere da meno: un’iniezione infiltrante di botox sulle labbra e sul seno, extension tra i capelli vistosamente evidenti, un pizzico di liposuzione ovunque. La donna di plastica da consegnare nelle mani di uomini “usa-e-getta” è completa. Impossibile accettare il trascorrere degli anni se esiste un miracolo chiamato scienza medica. Prende il sopravvento l’esigenza di dover apparire e la competitività che genera con tutto e con tutti, al di là di qualsiasi salto generazionale preventivabile, è spaventosamente conforme agli azzardi di cui si ha notizia costantemente nel mondo. Non ci sono differenze tra ventenni e trentenni, quarantenni e cinquantenni o sessantenni. La competizione non ha limiti e scardina i valori determinanti. Non fa che generare vittime consapevoli di un vero e proprio tiro al massacro. Non si può non avvertire a livello somatico il prurito, il fastidio della carne violata dalla violenza auto-inflitta. Osservando la scena, si ha la sensazione di avvertire un fastidio sottopelle che Antonella Salvatore sviscera senza falso pudore e con calcolato cinismo.
La scena si apre con un corpo a terra, squadrato da una luce rosso sangue. Poi un parto al centro della stessa, inquadrato da una luce bianca, candida, proveniente dall’alto. Un grido lacerante toglie i colori di luce e fa sì che il buio si prenda la scena. E quando la luce illumina tutto il palco, madre e figlia, carponi, si danno finalmente al gioco, si muovono comprese nei loro stessi abbracci. Tutto attorno, oggetti d’interni apparentemente accoglienti, le circondano disordinatamente. Poi l’atto di vestizione della figlia. Una bambolina addomesticata nelle mani della madre. La cura e il surplus di attenzioni di natura psicotica vengono scambiate per forme di educazione genitoriale. L’identità è già segnata, inconsapevolmente. Tutto passa e filtra, attraverso una televisione che suffissa sullo schermo alle spalle delle interpreti, fondale scenico invadente, dirama la lista della spesa del “non fare questo e quello, non essere così, non cercare di pensare né parlare troppo, non dirlo, segui questo e quello, muoviti così, poniti cosà, esigi, mostrati”, e via profondendo.
Ingurgitare e assemblare. Provare a digerire.
Federico Mattioni