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Italiani Cìncali! Parte prima: Minatori in Belgio

fotoÈ incredibile quanto, a volte, basti una sedia e un grande uomo di teatro per rievocare episodi della nostra storia, rivivere ciò che siamo stati, conservare quel bene prezioso che si chiama memoria. Mario Perrotta con il suo progetto Italiani Cìncali! – sia la prima parte “Minatori in Belgio” che la seconda “La Turnata” – racconta un’Italia non molto remota ma che sfugge, non si ricorda abbastanza o, forse, si vuole dimenticare. C’è stato un tempo in cui eravamo noi a fuggire dal nostro Paese per fame, per cercare altrove opportunità o per garantire un futuro ai figli. Entrambi gli spettacoli nascono dal desiderio di voler raccontare l’emigrazione del secondo dopo guerra verso i paesi del nord-Europa, in quei luoghi dove gli italiani erano derisi – infatti “Cìncali” era usato per definirsi “Zingari” – umiliati, offesi e sottoposti a condizioni di lavoro inumane.

Sono passati dieci anni dalla prima volta che Perrotta ha messo in scena questo spettacolo. Dopo centinaia di repliche e numerosi successi – una trasmissione radiofonica e un libro dal titolo “Emigranti Esprèss” – l’attore li ha voluti ripresentare entrambi all’ITC Teatro di San Lazzaro, dove tutto ebbe inizio quando la Compagnia dell’Argine mise a punto lo spettacolo scritto da Mario Perrotta e Nicola Bonazzi.

Tanti sono i motivi che portano, ancora oggi, a replicare la pièce riempiendo sempre le sale che la ospitano. Anzitutto la storia. Una storia recente, che ancora brucia nelle nostre vene e che ci porta a fare i conti con il nostro essere, oggi, a causa dell’immigrazione dilagante nel nostro Paese, carnefici di altri emigrati e a reiterare comportamenti che tanto ci hanno fatto penare. C’è poi l’abilità dell’attore, capace di trasportare, con la fantasia e l’immaginazione, verso luoghi ed episodi offuscati dall’oblio, e lo fa con un abilissimo incastro di momenti comici, leggeri ad altri drammatici, amari, dolorosi, non tralasciando nemmeno i dati storici che rimangono impressi proprio perché si attiva la memoria che non dimentica, quella emotiva ed empatica.

Lo spettacolo parte dal 1980 – con una premessa autobiografica – anno in cui per la prima volta Merio Perrotta prese il treno degli emigranti, di chi andava altrove per cercare di cambiare un destino fatto di miseria e di stenti. Lui però era solo un bambino di dieci anni che viaggiava verso Bergamo per andare a trovare il padre. Dopo tanti anni l’attore ha voluto risalire su quel treno e l’ha fatto tornando laggiù nella terra che gli ha dato i natali: il Salento. Dismessi i panni di quel bambino incosciente e pieno di fantasia che immaginava le storie dei passeggeri, li vedeva dormire e poi svegliarsi nell’uggiosa luce della pianura padana, Perrotta indossa quelli di un postino salentino, con l’inconfondibile accento e gestualità.

Pinuccio è un postino speciale perché conserva la memoria di tutte le storie, nel suo paesino, degli emigranti e anche delle donne, rimaste ad aspettare i propri uomini stanche e sole e in cerca di “conforto” da lui, unico maschio rimasto in loco.

Sì perché nel secondo dopoguerra, racconta Pinuccio, arrivò dal Belgio all’Italia una richiesta di operai per le miniere con una promessa al governo italiano: 200 chili di carbone per ogni lavoratore reclutato. E così le province italiane si riempirono di manifesti che promettevano un buon lavoro, guadagno e alloggi dignitosi. Ma le speranze e le illusioni che salirono in quel treno insieme ai lavoratori ben presto furono vanificate e il racconto si converte nell’elenco delle pessime condizioni, dei disagi e delle angherie cui andarono incontro i nostri connazionali. La realtà ha trasformato gli alloggi promessi in ex baracche dei campi di concentramento e il lavoro nelle miniere divenne un inferno.

L’interminabile sequela di visite mediche, nelle quali veniva controllato ogni anfratto del corpo prima di essere presi; le medagliette che mettevano al collo per identificare gli operai; il pericolo costante dell’esplosione del grisu; lottare con i topi per non farsi rubare il cibo, erano solo alcuni dei supplizi da subire. E poi convivere con il buio costante e perenne, tanto da non riuscire più a vedere “nemmeno i tuoi pensieri”; il pagamento a cottimo che induceva a restare nella pancia della terra per tantissime ore e scavare, scavare, scavare finché non si finiva la quantità di lavoro prevista. In queste misere condizioni moriva un italiano ogni cinque giorni e se non ne morivano più di tre in un giorno, non fermavano nemmeno i lavori. Tutto questo ci racconta Pinuccio, il postino, e Perrotta, l’attore che attraverso un gioco di luci esce dal personaggio per entrare nella Storia e raccontare date, numeri, eventi.

Finché si arriva il disastro di Marcinelle: l’8 agosto 1956, nelle viscere della terra ci fu una terribile esplosione che provocò la morte a 262 uomini, di cui 136 italiani.

E così una delle pagine più drammatiche della nostra storia viene riconsegnata allo spettatore grazie all’intensità del racconto di Mario Perrotta che, attraverso il suo teatro civile induce a riflettere, a non obnubilare la mente e a sentirsi un po’ vittime e un po’ carnefici.

 

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