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“Emigranti” di Slawomir Mrozek

fotoRegia: Lucio Allocca

Con: Andrea Avagliano e Fulvio Sacco

Scene di Alessandro Mauro

Costumi di Anna Verde

Musiche e suoni di M° Clelia Vitaliano, Alessandro del Sole

Prodotto da Iride associazione culturale

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Nel 1974 la Repubblica Socialista polacca era in pieno regime sovietico e doveva ancora conoscere il movimento operaio che qualche anno dopo si sarebbe sviluppato intorno al sindacato “Solidarność”, appoggiato com’è noto, dallo Stato del Vaticano.

In quello stesso anno Slawomir Mrozek, drammaturgo, giornalista e vignettista satirico scrive “Emigranti”, testo non estraneo alle influenze della coeva drammaturgia europea e non, in cui due personalità generiche che egli appella AA e XX si confrontano in uno scantinato, incarnando la dicotomia tanto cara alla letteratura e storia russa o filorussa, classe operaia- intellettuale.

Lucio Allocca, dunque, regista dell’allestimento in scena al De Poche sceglie un’opera pressocché sconosciuta ai più come lo è l’autore. Incuriosisce ancor maggiormente, allora, tentare di capire come ne sia stato l’approccio tourt court.

Anzitutto, la scena si presenta molto fedele alla didascalia leggibile dal testo; un sottoscala (del resto l’assito del teatro partenopeo è sotto il livello della strada) in cui due estranei si trovano a convivere; quindi due brande poste ai lati dello spazio, al centro un tavolaccio con due sgabelli alle estremità, sul fondo una porta disegnata su una grande tela bianca (citazione delle vignette di Slawomir?); un attaccapanni, tubature d’acqua scoperte e presumibilmente in cattivo stato – e difatti durante lo svolgimento di tutta l’azione il gocciolare dell’acqua sarà un sottofondo – un inquietante peluche gigante e una tendina che separa dal resto una tastiera che suona AA. AA è senza dubbio una sarcastica sigla per indicare un intellettuale pseudosocialista di quelli che inevitabilmente rimarcano la propria superiorità rispetto alla massa incolta e ignorante incarnata dallo stereotipo XX; “Credi davvero che le scarpette a punta possono nascondere i tuoi piedoni da contadino?”. L’ironia che farcisce i misunderstanding dei due ne misura la relativa distanza; linguaggi diversi, mondi e sguardi differenti. L’incapacità d’istruire le masse – perché è su questo che s’incentra la figura di AA – è palese quanto lo sia il sottile disprezzo verso l’interlocutore che scorre in tutto il dialogo: Tutti guardano lo schermo. E anche tu. Tu guardi qualcosa che si muove, confusamente, immagini, non capisci quello che dicono. L’essenziale è che li tu ti senti al sicuro. Il cinema però ha un maledetto difetto: devi pagare! Allora il materialismo proletario si scontra con un atteggiamento intellettuale, altrettanto becero, che Mrozek non esita a far trapelare con sarcasmo.

Il dialogo, perciò, qui rivisto alla luce di un’ipotetica ambientazione italica in cui due emigranti del sud (XX parla in dialetto) giungono a nord, ha una partitura emblematica. Non è banale dunque che XX risponda alle interpretazioni “socio-antropologiche” di AA su una sua bugia con la frase “ho fame!”. Giacché il cibo, la grana, le femmine e le mosche che mancano in questa anonima città del Nord costituiscono le sole argomentazioni e ragioni dell’uomo-operaio, l’uomo-bestia se vogliamo guardare dal punto di AA. E allora sono i gesti minimali, fumare le sigarette, bere e mangiare le scatolette, solo sostentamento di entrambi, ad accumunare questi esseri umani nascosti in un angolo intestinale di uno stabile in balìa del vociare di chi vive, festeggia l’inizio di un nuovo anno in alto, sopra il livello della strada. Perciò, l’orologio ad un certo punto segna mezzanotte, i tubi perdono acqua, il freddo, disagi che fanno scattare fra AA e XX una stramba interdipendenza più che psicologica, quasi fisica legata alla necessità di avere in quell’ambiente estraneo semplicemente una controparte con la quale condividere del cibo posticcio e una sigaretta. Quasi come i protagonisti beckettiano di Waiting for Godot, potremmo suggerire. Solo che qui il funambolismo del dialogo non consiste tanto nella venatura estraniante-esistenziale solo, bensì nel progressivo delinearsi di una condizione di assoluta marginalità socio-politica, in cui sia AA che XX sono relegati come emblematicamente lo sono nel sottoscala. Marginalità anche intellettuale, sia chiaro. Quando AA dichiara di non essere hegeliano, quindi idealista – esternazione non capita da XX – ironicamente emerge un che di caricaturale nel personaggio che in realtà non ha alcun strumento d’azione verso ciò che è fuori.Sono un anello superiore dell’evoluzione. Ho bisogno di sole, di aria, di spazio. E qui non ci sono neanche le finestre” è la parossistica ironia versus lo spazio concreto, la scena, i suppellettili marciti, l’umidità che trasuda da pareti ben immaginate. Da un lato la branda e la tastiera, qualche libro di AA mentre dall’altro la branda di XX e quel suo peluche in cui stipa i risparmi. Due mondi opposti e incomunicabili, perché il pensare di AA equivale a non fare nulla per XX, esattamente come la brama di accumulare denaro assuefacendosi a bestiali condizioni di lavoro di quest’ultimo implica per l’altro una costante schiavitù alla cupidigia.

Libertà e legge, lavoro e uguaglianza hanno un diverso significato per ciascuno. L’incancrenirsi di un’astrattezza ideologia e paternalista racchiude in sé una sorta di senso di colpa di matrice storico-sociologica, Per espiare i peccati dei miei antenati, che non hanno mai brindato insieme ai tuoi – confesserà AA – e il brindisi, appunto, un minimale gesto di condivisione, resta quasi l’unico possibile. Forse neanche il ritorno è un sogno condiviso; rimane però verso la fine il gesto dello stracciare il denaro che faranno pensare alle bambine a scuola, alle mosche del paesino d’origine, all’equazione lavoro-pane, alternativa – chissà se fattibile – alla fabbrica da macello che è la città. Un vero barlume di coscienza? Tuttavia, viene da chiederci, se la visione fatalistica del proletario in relazione al potere sia per se stessa un’amara ma vera consapevolezza del reale che sconfina nel grottesco tentativo (beckettiano) di suicidio. Una necessità “bestiale” sovrasta ogni tentativo di opposizione al potere costituito.

Andrea Avagliano e Fulvio Sacco riescono a delineare i due protagonisti della vicenda contrastando con l’ironia lo spazio desolato, e a dare vita ad un microcosmo che si riconosce anche nelle coordinate spazio-temporali nostrane; il ritmo fluisce maggiormente nella seconda parte che nella prima in cui va più a rilento. L’utilizzo del dialetto, invece, è utile a sdoganare una situazione che originariamente ci può apparire incolore, ancorata ad una realtà storica e geografica distante, ma che però ha una coerenza di fondo; del resto, nel 1974 – poniamo – possiamo ben immaginare torme di contadini che si fanno operai per il Nord, sognando la terra natìa mentre pronunciano le stesse parole di XX: Io non voglio parlare come loro.

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