una produzione La Corte Ospitale
in collaborazione con Armunia Festival
18° edizione della Rassegna Scenari Pagani con la direzione artistica di Nicolantonio Napoli
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La scena è vuota. Il fondale e le quinte nere creano l’effetto grotta.
E al centro un uomo seduto fa un gran rumore: canta, urla, si agita. Non capisco bene. Poi comincia a parlare e capisco sempre meno. Ma andiamo con ordine.
È un monologo, non per desiderio eccessivo di catalogare ed etichettare, ma per orientarsi.
È seduto su una cassa acustica, con un microfono davanti, con un piede aziona un campanello e con l’altro tocca (non si vede bene come) un computer. Forse da solo cura l’audio e il suono, ma alle luci c’è un tecnico che lo illumina e lo accompagnerà, sottolineandone bene le nervose variazioni di toni e movimenti. Sì, si muove pur rimanendo seduto, muove le mani, le braccia, le gambe. Sì, c’è un certo movimento nel suo essere statico.
È un attore, maschio: un uomo che parla, sembra parli di sé. Allora è un racconto! Un teatro parlato, parlato anche in una lingua strana, sembra pugliese. Sì, lo è. Parla del Salento e della vita del suo paese. Sembra di sentire l’atmosfera e la calura dei pomeriggi afosi, assolati, di vedere la piazzetta del paese, i muretti e le panchine con gruppetti di ragazzi che aspettano non si sa bene cosa, gli uomini al bar e le donne…non si vedono… o non ci sono o sono da qualche altra parte.
Una fotografia, tre amici, anzi lui con due amici, di cui uno parla in modo incomprensibile a tutti tranne che all’altro amico, che solo lo capisce e traduce per gli altri. Si accompagnano nelle lunghe interminabili giornate in cui l’unico obiettivo era “….farsi…canne, montagne di canne, catene montuose di canne…”. È solo in casa, la mamma o altri possono tornare in qualsiasi momento, ma lui non aspetta nessuno e non ha niente da fare, assolutamente niente da fare. All’improvviso arriva un angelo (una donna) che bussa alla porta e cerca proprio lui, viene dalla Germania o forse dalla Svizzera. Viene proprio per lui e poi arrivano i due amici, uno per volta: Claudio e Franco di cui solo uno capisce l’altro e traduce. Quindi io non ho molte speranze. Ma il racconto mi prende, rido, mi diverto e mi agito man mano che si va avanti. L’imbarazzo si mescola al compiacimento per la bravura dell’interprete.
È bravo, ma capisco sempre poco, perché si vomita le parole addosso e parla in dialetto, poi canta in inglese, all’improvviso fa le voci di tutti gli abitanti del suo paese, non proprio di tutti, ma di quelli che hanno significato e peso nella sua vita. Voci chiocce, stridule, acute ma poi gravi, sonore, false, minacciose, supplichevoli, imploranti, strazianti. Si supplica e si implora quando si sta male per la mancanza della dose!
Sembra un’astronauta, quando si muove nel vuoto, davvero nel vuoto assoluto, pur seduto quando, dopo averla cercata a lungo, finalmente la bestia entra in vena.
La scena è sempre vuota ma si popola di fantasmi evocati dal suo tormento interiore e il racconto non è più interpretato ma vissuto con intensità e dolore.
Assistere all’umiliazione e alla caduta della dignità è sempre motivo di imbarazzo.
Il degrado dell’essere umano, la perdita di ogni barlume di razionalità, il dilaniare la propria persona anche nell’abbrutimento fisico, il superamento di ogni limite: “Essere pronti a vender la propria madre o il proprio figlio… Non è solo un modo di dire…”.
Quando si sta male niente più ha importanza, si vive e si muore solo nel proprio dolore. L’astinenza cancella ogni ricordo, annulla ogni sentimento e prepotente penetra in ogni fibra dell’essere che non ha più nulla di umano.
Tutto questo ci racconta Oscar De Summa. Perché?
Perché oggi la scelta di scrivere e rappresentare questo percorso della droga fin nel suo baratro più profondo? Per aiutare gli altri a non caderci? Quando mai l’esperienza di Tizio è servita a Caio? Parlare è liberatorio, ma quanto può servire agli altri? Agli spettatori, che davvero rimangono colpiti a tradimento. “Sembrava uno spettacolo divertente, ma poi che dramma!” dice qualcuno.
È bravo, ma far capire meglio le parole? Articolare? E poi bere da una bottiglietta in faccia al pubblico, si proprio in faccia…non si fa!
Essere alternativi non vuol dire venir meno alle regole del gioco teatrale. Se si ha l’esigenza di bere, si deve far entrare questa azione nell’economia dello spettacolo, altrimenti è una conferenza. Il conferenziere può bere (sono già predisposti bottiglia e bicchiere) l’attore, no!
Il ruolo del pubblico è di credere a ciò che l’attore finge di provare, che sia un’emozione o il racconto di un’avventura. Ma se l’attore non finge? Qual è il ruolo del pubblico?
Deve partecipare al dolore dell’attore e poi essere compiaciuto del lieto fine? Perché, per fortuna c’è il lieto fine.
Applausi scroscianti hanno salutato la fine dello spettacolo. Ma le vibrazioni dello psicodramma sono rimaste a lungo.