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L’uomo, la Bestia e la Virtù

fotoTesto: Luigi Pirandello
Geppy Gleijeses………….Paolino, professore
Lello Arena ……………….Capitano Francesco Petrella
Marianella Bargilli……….Sig.na Petrella
con la partecipazione di Renata Zamengo, Mimmo Mignemi, Vincenzo Leto

costumi: Adele Bargilli
scene: Paolo Calafiore
musiche: Mario Incudine
regia: Giuseppe Di Pasquale
una produzione GITIESSE Artisti Riuniti e Teatro Stabile di Catania
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Che Aristotele abbia colto nel segno quando diceva “L’uomo è animale sociale” lo si capisce anche dal fatto che sia proprio da qui che inizia a svilupparsi il pensiero di un autore – Pirandello – vissuto oltre duemila anni dopo. Tuttavia se per il filosofo greco la partecipazione alla società civile è ciò che rende l’uomo degno di tal nome, per Pirandello essa è una Circe che imprigiona e che sa tramutare l’individuo in “bestia”. Ma forse è meglio andare con ordine. Quando a cavallo tra XIX e XX secolo le idee di Nietzsche, Freud, Einstein demoliscono il comodo rifugio della morale, del sistema kantiano-newtoniano e del positivismo deduttivo, l’esistenzialismo sembra l’unica via percorribile: la domanda “Chi sono io?” torna sulla bocca degli intellettuali. Nulla di certo si può più affermare sull’uomo se non la sua insondabilità e la sua incapacità di reagire se messo davanti al Male di cui è egli stesso causa. Citando liberamente Il fu Mattia Pascal: “davanti a un buco nel cielo di carta” egli “si sentirebbe cadere le braccia“.
A questo punto, se è vero che “la commedia è imitazione della vita”, essa diventa per l’autore agrigentino naturale campo di ricerca e di espressione.
“Chi sarà mai l’”uomo”, chi la “bestia”, chi la “virtù”?” È il titolo stesso a invitare lo spettatore a questo gioco di associazione personaggio-maschera, un gioco comunque facile: l’ ”uomo” è senza ombra di dubbio Paolino, lo stimato professore interpretato dal prediletto allievo di Eduardo De Filippo Geppy
Gleijeses; la “virtù” è rappresentata dalla signora Perella, madre di un unico figlio per il quale dà tutto e vittima dell’adultero marito sempre via per mare: il Capitano Petrella, la “bestia”.
Ciononostante, mentre tra battute e siparietti divertenti il pubblico scoppia in fragorose risate, sempre più numerose sono le ombre che avvolgono i personaggi e sulle labbra degli spettatori si disegna un amaro sorriso: la “virtù” è incinta dell’integerrimo professore e le maschere si sciolgono di fronte all’evidenza.
Il ritmo diventa martellante quando si scopre dell’imminente ritorno del Capitano Petrella: l’unica soluzione che si prospetta è far sì che il marito adempia ai propri doveri coniugali nell’unica notte in cui si tratterrà a casa. A tale scopo Paolino si procura un afrodisiaco e, non mostrando più alcuna remora per la tanto ostentata “morale”, spinge la signora a truccarsi in modo avvenente e ad indossare una vestaglia giapponese. Ella apparirà agli occhi del professore come “Cho-cho-san”, figura pucciniana di donna tradita, mentre agli occhi del marito diventerà una “bertuccia”: la donna, soffocata in una maschera che non le appartiene, diventa una caricatura di sé. Il capitano, giunto finalmente sulla scena, si rivela burbero e impulsivo; gli spazi chiusi, in special modo l’idea di casa che in questa opera è sinonimo di norme sociali, gli provocano rabbia e nausea. Tutto sembra preannunciare un tragico epilogo.
L’ultimo atto presenta il dialogo fra Paolino e il Petrella. La tensione è massima ma, proprio mentre tutto precipita, ecco che interviene la signora e Paolino comprende, con sua grande gioia, che tutto è andato per il meglio e abbraccia più volte quello che ha sempre indicato come “bestia”.
Il lieto fine della commedia opera un taglio definitivo nel velo delle apparenze: siamo sempre stati davanti a una “bestia” con sembianze di “uomo” e davanti a un “uomo” con fare da “bestia” mentre la “virtù”, fragile e incerta e sempre sull’orlo del precipizio, trae una debole forza solo dalla propria onestà intellettuale. I termini “uomo”, ”bestia”, ”virtù” non indicano più qualità morali più o meno condivisibili ma ne diventano ricordo sbiadito e immagine vuota, interscambiabile come la maschera del teatro greco indossata da un attore, l’
hypokritès: colui che simula, colui che inganna


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