Drammaturgia, interpretazione e regia di Mimmo Borrelli
Musiche di Antonio Della Ragione
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In scena questa settimana al Teatro Nuovo di Napoli, Napucalisse scritto e interpretato da Mimmo Borrelli si ripresenta nella versione monologata e strumentale. Scritto come oratorio, articolato quindi da una partitura più complessa e lunga, non ne perde qui la sua essenza; anzi, potremmo dire che il soccorso polistrumentale di Antonio Della Ragione (dalla tammorra allo xilofono agli strumenti a fiato) rafforza il profondo legame fra parola e gesto, binomio-cellula base di tutto lo spettacolo.
In assito spoglio un leggio è collocato esattamente al centro, alla sua sinistra una sdraio dalla quale ciondola un rosario, è orientata verso il fondo, alla sua destra si pone Della Ragione con i suoi strumenti. Le luci sono tenui, a prevalere è la penombra. L’essenzialità visiva si profila imprescindibile dalla peculiarità poetica e rapsodica di Borrelli, stiamo insomma parlando di un teatro di pura parola.
Al centro di Napucalisse (fusione di due parole qui sinonimiche) vi è il Vesuvio, leopardiano Sterminator, del quale il drammaturgo flegreo racconta una leggenda; il vulcano – analogamente all’Etna, come spiega prima di immergersi nella performance – sarebbe in realtà Lucifero precipitato sulla terra in seguito alla nota ira divina. Storie antiche mutuate dal paganesimo che aleggia perennemente nelle tradizioni cristiane del Meridione.
L’imperioso Vesuvio, metronomo umorale della nostra città, sull’orlo di abbattersi su Napoli di cui è minaccia e al contempo arcano specchio, possiede in realtà una natura doppia; creàtor o artifex, essenza del genio partenopeo, incarnato significativamente da un Pulcinella stanco ed incapace di far ridere, e sterminatore, animato da una volontà mortifera e violenta che ha corrispondenza nel secondo interlocutore ovvero l’assassino di cartone. Due esistenze le cui coscienze sono prolungamento e riflesso della duplice natura del Vesuvio, dio aborrito senza memoria che con il suo fuoco fa della città sempre un nuovo “palinsesto”, distruggendone ciò che era prima similmente al popolo che gli è ai piedi, condannato a dimenticare la sua Storia e quindi a non avere alcuna possibilità di riscatto. Le Bellezza di una terra è anche dono tremendo di morte, volontà di potenza come di distruzione. Nello sciorinare di versi, come lava inarrestabile, suoni dialettali diventano poesia, quasi poema, le cui parole sembrano assumere la duttilità fertile delle terre vulcaniche. Moti tellurici si traslano in un affastellarsi di anafore, di rime, di metafore e di allitterazioni, si arrestano nei vividi racconti, riquadri icastici, come quello del matrimonio partenopeo che Pulcinella racconta ai bambini in gita spaventati dalle minacce del Vesuvio. Qui Mimmo Borrelli sembra alludere alla gestualità pulcinellesca facendone emergere un relativo “incancrenirsi” e perciò alla stanchezza di una maschera che in una condizione estrema e paradossale tenta di riprendere la propria funzione esorcizzatrice della tragica storicità che l’humus partenopeo arreca con sé.
Gesto in questo spettacolo significa autentica metamorfosi quale magmatica morbidezza della corporeità dell’autore ed attore, perno centrale della scena. La narrazione fluisce e sfocia in un’autentica rapsodia in cui il corpo stesso diviene parte del suono e del canto che esprime parola. Non a caso potremmo definire Mimmo Borrelli una sorta di aedo, cantastorie della propria terra non solo per il sostanziale rimando civile della sua opera e del pregnante valore che nel suo teatro dà all’oralità – che ingloba anche un senso “orante” in un’antitetica blasfemia – impreziosita da una avvolgente polifonia, ma anche perché si avvale di una lingua, quale il dialetto flegreo costituito da un sostràto complesso e vario. In questo modo egli apporta sulla scena non solo la condizione del presente, ma cerca di interagire poeticamente anche col passato. Una passato fatto di hybris, certo, questa colpa genetica di essere vittime e quindi colpevoli, popolo dormiente e stanco, attutito solamente dall’innocenza di una futura generazione ancora esente.
Al di là dei contenuti e della lingua, i versi di Napucalisse sono connaturati all’esigenza di essere teatro, partenza ed approdo di un’elaborazione drammaturgica, attoriale e musicale pensata, secondo il nostro sguardo, come un parto maieutico articolato ed intenso, un surrogato dell’eruzione evocata. Un insieme di elementi compenetranti ribolle sulla scena e sta al singolo spettatore afferrarne la poeticità e l’urgenza interiore di questo flusso.