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Il cantico dei cantici

Andato in scena all’Auditorium del Centro Sociale di Salerno il 19 gennaio 2018

Foto di Fabio Lovino

adattamento e regia Roberto Latini

con Roberto Latini

musiche e suoni Gianluca Misiti

luci e tecnica Max Mugnai

organizzazione Nicole Arbelli

produzione Fortebraccio Teatro

con il sostegno di Armunia Festival Costa degli Etruschi

con il contributo di MiBACT Regione Emilia-Romagna

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Il testo, sorta di canto nuziale profondamente laico, con discendenze letterarie provenienti dalla Mesopotamia, è diviso in otto capitoli (un prologo, cinque poemi d’amore e due appendici), in forma di dialogo tra un uomo e una donna, Salomone e Sulammita.

“il mio diletto è candido e rosato,

le sue guance sono oro sopraffino,

il suo collo è uno stelo soavissimo,

anche se non se lo lava dalla Pasqua passata,

i suoi occhi sono occhi di colomba,

il suo corpo risplendente avorio,

e le sue gambe sono due colonne di marmo,

in calzoni così luridi che stanno in piedi da soli;

egli è tutta una delizia,

ma sarà sempre un teppista da due soldi,

perciò non sarà mai il mio diletto,

che peccato”.

Che peccato! Che peccato!

Ma forse non è peccato, come cantava Peppino Di Capri, non è propriamente un peccato essere diversi nell’autonomia di pensiero e gusto.

Abbiamo assistito ad un trionfo.

La Stagione 2018 Mutaverso Teatro, giunta alla terza edizione, diretta da Vincenzo Albano/Erre Teatro, in scena all’Auditorium Centro Sociale di Salerno (in via Cantarella 22, quartiere Pastena) venerdì 19 gennaio alle ore 21, ha iniziato con uno spettacolo che ha al proprio attivo due Premi Ubu 2017 per ‘Miglior progetto sonoro’ e per ‘Miglior attore o performer’ appena conquistati.

Già prima di entrare si respirava un’aria pregna di attesa che implicitamente altresì viveva la sua conferma. Conferma di aver scelto bene, conferma di essere nel posto giusto al momento giusto, conferma di navigare nel flusso della ricerca contemporanea. Osservando i volti delle persone si percepiva la soddisfazione di essere lì dove erano, quasi una conferma del proprio ruolo sociale che li autorizzava a “capire” l’operazione culturale che aspettavano di vivere.

Cos’è d’altronde lo spettatore, fra tutte le altre prismatiche sfaccettature, se non un “guardone autorizzato” a spiare nella quarta parete le viscere umorali della psiche, sentendosene purificato, a voler ricordare Aristotele e la sua catartica visione? E l’attore, quanto più è solo sulla scena, tanto più cerca “compagni al duol” con cui attraversare le peripezie della rappresentazione.

Si rappresenta se stessi? È come chiedere allo scrittore quanto di sé c’è nel suo libro…

Qualcuno ha detto che si scrive sempre la stessa storia e che si racconta sempre la stessa trama…

E l’amore è la polverina magica che rende irresistibile ogni pozione. L’amore in ogni suo risvolto e derivazione: dal sacro al profano è la tentazione di ogni artista. C’è un artista in ognuno di noi. Possiamo tutti fare arte? Se possiamo guardarla e capirla forse potremmo anche farla…

C’è nascosta nel profondo la saccente arroganza di poter osare… se si volesse… ma è più comodo guardare cosa riescono a fare gli altri per poter condividere o dissentire.

La disamina ci allontana, dimergolando l’attenzione, come un chiodo lento, ma torniamo allo spettacolo.

Si aprono le porte della sala: l’attore è già in scena disteso sulla panchina con un cappotto viola. Dovrebbe essere immobile, almeno si pensa, ma ogni tanto si nota che si è mosso, forse un crampo… Una panchina che promette bene. Una scenografia essenziale e corposa, compatta e intrigante.

Una cornice di legno che sembra un quadro o una televisione o una separazione dietro la panchina. In un lato in avanti un microfono sull’asta. Dall’altro lato una pianta secca e lunga.

Il pubblico entra rumorosamente, saluti, chiacchiere, si occupa il posto e non si capisce perché non si cominci.

Poi finalmente il direttore artistico Vincenzo Albano prende la parola e promette di dirne poche di parole e mantiene la parola (il gioco di parole è assolutamente voluto). I ringraziamenti sono d’obbligo ma non scontati e ben contento può essere per l’ affluenza e la partecipazione del pubblico.

E si spengono le luci e tacciono le voci e la figura si anima.

Si alza dalla panchina, si muove sulla scena per molti minuti in silenzio e poi va alla postazione incorniciata, uno studio radiofonico.

La consolle a cui si siede, al centro dello spazio scenico, è incorniciata a segnare una soglia tra interno ed esterno, percepita anche acusticamente ogni volta che l’attore, nelle pause dell’immaginaria trasmissione, si toglie le cuffie: il volume della musica si abbassa (e la scritta “on air” sul display si spegne).

Le parole stupende del Cantico dei Cantici, (attribuito a re Salomone, ma più probabilmente frutto di un estinto poeta senza nome) sono vomitate al pubblico con la voracità arrogante di chi le ha scoperte e se ne è appropriato ed ora ne rivendica l’esclusiva proprietà.

In un ipotetico sottotesto – Io te le dico ma sono mie, te le faccio ascoltare ma le ho scoperte io. Io sono il depositario unico di questo tesoro e quindi ne faccio ciò che voglio come voglio –

E tutto si compie nella magia del teatro anche ciò che forse lo implode creando dissonanze e stridori. Tutto si compie assecondando le fantasie dell’essere fortunato che può, in quel preciso attimo, essere artefice del destino di parole, suoni e azioni.

Solo sulla scena, padrone indiscusso di un tesoro, come un leone affamato sbrana e dilania le carni della sua vittima in un rito antico quanto il mondo, si sazia delle parole che condiscono l’Amore.

Un po’ Renato Zero quando si muove con gestualità ritmata o forse sincopata in una danza sfrenata, che fa quasi materializzare fantasmi evanescenti nell’oscurità della scena di fondo.

Jean Cocteau e la sua voce umana? Carmelo Bene nel suo Pinocchio? Renato Carpentieri nelle sue sperimentazioni al microfono per i versi scoppiettanti e futuristi della Piedigrotta Cangiullo?

La vera ricerca oggi sarebbe restituire bellezza ed armonia alla soavità di un testo ambrato dalle sfumature cremisi di cui tutti conoscono il titolo come la Divina Commedia, ma quanti si sono addentrati nelle sue meraviglie linguistiche per assaporarne la sonorità d’amore?

Applausi prolungati.

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