Che la Cavalleria rusticana di Mascagni e i Pagliacci di Leoncavallo siano, oltre che le opere manifesto del verismo italiano, tra i titoli più amati in assoluto dal pubblico, è già risaputo, ma era anche intuibile che la regia di Pippo Delbono, chiamato al Teatro Costanzi di Roma per il nuovo allestimento del “dittico” non sarebbe passata inosservata e che il regista ligure avrebbe impresso chiaramente la sua impronta. Magari non senza qualche polemica.
Così è stato: la Cavalleria/Pagliacci in scena al Costanzi (fino al 15 aprile) dopo la bellezza di ben 46 anni di assenza, è nella personalissima visione, emozionante e minimalista, di Pippo Delbono “regista in scena per portare qualcosa di brechtiano al melodramma” che ha scatenato fin dalla prima qualche contestazione da qualcuno del pubblico (in un teatro sempre sold out per tutte le cinque recite) troppo ossequioso della tradizione e magari anche impreparato di fronte alla personale reinterpretazione del regista arrivato alla terza prova lirica dopo una Butterfly e un Don Giovanni.
Ma Delbono, che aveva realizzato per il San Carlo di Napoli la Cavalleria e che vi accosta un nuovo Pagliacci, non ha mai paura di esporsi fin dall’inizio quando precede l’ingresso del Maestro Carlo Rizzi in buca (e al debutto al Costanzi con una direzione corretta, essenziale) per un breve, personale prologo in cui racconta due storie autobiografiche legate proprio alla Pasqua.
Gli altri interventi personali previsti in Pagliacci, sono stati eliminati nel corso delle repliche ridimensionando forse l’idea del regista, ma cercando di placare (anticipatamente) il pubblico. Delbono però è sempre coraggioso: è presenza costante in scena, ma mai invadente una sorta di burattinaio che guarda e partecipa, sebbene sia impotente al dramma, sempre rispettoso della musica (quasi asservita dalla messinscena), che ha realizzato un trait d’union fra il melodramma e la sua compagnia che porta in scena a cominciare dall’inseparabile Bobò, attore sordomuto e analfabeta, sottratto al manicomio di Aversa e che vive con il regista da anni cui viene affidata anche la croce, unico simbolo della processione in Cavalleria fino in Pagliacci dove arrivano anche gli altri attori della compagnia di Delbono, persone che provengono da realtà di diversa emarginazione sociale.
Ma Delbono è sempre abilissimo nel muovere scenicamente il Coro (diretto da Roberto Gabbiani) che diventa costante strumento drammaturgico partecipe in Cavalleria, astante in Pagliacci e resta sempre coerente alla sua idea di regia che gli fa pensare al dittico come a un’opera unica che converge nella stessa “zona passionale” e nell’amore che uccide: un’opera completa tutta incastonata in una grandiosa e minimale scatola – stanza rossa realizzata da Sergio Tramonti con i costumi di Giusi Giustino.
Una zona passionale che si chiude nella morte senza speranza in Cavalleria e che si apre alla vita nonostante tutto in Pagliacci nella sovrapposizione fra la finzione e la realtà dove trionfa comunque la vita in un tripudio di colori che strizza l’occhio al blu, a Picasso e a Chagall come voluto da Delbono.
Ottimo l’intero cast valorizzato anche da Delbono: da ricordare le voci di Anita Rachvelishvili al debutto come intensa Santuzza in Cavalleria e di Carmela Remigio, brillante Nedda in Pagliacci, del possente Alfred Kim – Turiddu, di Gevorg Hakobyan – Alfio e Tonio, di Fabio Sartori – Canio, applauditissimo, di Anna Malavasi – Lucia, Martina Belli una sensuale Lola.
Cavalleria/Pagliacci di Delbono formano un dittico emozionante con una precisa e personale idea di regia contestata anche sulla scia dei pregiudizi che hanno preso piede nei giorni scorsi dal pubblico e forse acuite dal contrasto con le repliche della storica Tosca del Novecento che si alterna in questi giorni al Costanzi.
Ultime repliche stasera alle 20 e domenica alle 16.30, info su operaroma.it.