La scrittura di Thomas Bernhard, drammaturgo, poeta e scrittore tra i massimi del ‘900, trasuda irriverente sarcasmo e cinica visione del mondo, ma anche una connaturata tendenza alla solitudine, sviluppata nell’infanzia e adolescenza, dovuta alla particolare situazione familiare. I suoi testi sono pressoché monologhi, il cui protagonista è un alter ego che lancia invettive contro il mondo e gli esseri umani. Critico spietato della nazione austriaca governata da una classe politica che non ha rinnegato il nazismo, e del popolo austriaco intrinsecamente nazifascista, fu avversato in patria ma ottenne un certo favore all’estero.
Ne Il Riformatore del mondo del 1979, un intellettuale misantropo, livoroso e inselvatichito che vive segregato su una carrozzina-trono in una casa-fortezza sta per ricevere una delegazione ufficiale che gli conferirà la laurea “honoris causa” per un apprezzato trattato su come salvare il mondo, tradotto in varie lingue. Tale riconoscimento è per l’autore la conferma che il saggio non è stato valutato con attenzione poiché sostiene che per salvare il mondo bisogna eliminare gli esseri umani.
Di quest’uomo ostile alle relazioni umane si prende cura una giovane donna che, nonostante i maltrattamenti verbali e le crudeli angherie, lo asseconda assoggettandosi alle sue tirannie, unica testimone di un costante delirio di onnipotenza.
La finta disabilità perpetrata dallo scrittore è un ulteriore escamotage che marca l’isolamento e l’auto-decomposizione fisica contrapposta a una presunta superiorità intellettuale che si arroga il giudizio e tende alla perfezione della solitudine, preludio di follia e di morte: “Ogni viaggio è un vero martirio, con tutta la fatica che mi sobbarco forse ci vorrebbe un posticino ben soleggiato, ma io odio il sole. Un posto all’ombra, ma odio anche l’ombra. E poi mi annoio terribilmente, al mare mi viene mal di stomaco, le grandi città non le sopporto, in campagna è tutto così monotono. Quando sono a Parigi non so cosa darei per essere a Londra, se sono a Londra vorrei essere in Sicilia”.
Lo stesso Bernhard aveva dichiarato, d’altronde, nel 1968 ricevendo un premio nel suo paese che “Ogni cosa è ridicola, se paragonata alla morte”.
L’arrivo dei delegati, inadeguati e stravaganti sembra confermare l’assunto dello scrittore che, rivolto al pubblico, declamerà la summa della sua disperata poetica mentre dietro di lui inscenano una danza grottesca figure con teste animalesche.
A Bernhard Minetti, uno dei più grandi attori di teatro del Novecento e interprete di molti testi di Thomas Bernhard, l’autore dedica la commedia con il suo nome e sottotitolata Ritratto di un artista da vecchio. Lo immagina stanco e disilluso mentre nella notte di capodanno aspetta nella hall di un albergo di portare in scena per l’ultima volta Re Lear e, abbandonandosi ai ricordi, riflette sulla propria vita, sul mestiere d’attore che non va in scena da trent’anni perché “si è negato alla letteratura classica”, sulle dinamiche del teatro e sull’arte, ed esprime giudizi impietosi su un teatro sempre più privo di senso, illudendosi di essere ascoltato da due donne presenti nella hall. Accostata alla poltrona una valigia, da cui l’artista alla fine estrae una maschera di Ensor che indossa, mentre si rifugiano nella hall, sfuggendo alla tempesta di neve, mostruosi e silenziosi clienti.
Il flusso di parole avvitandosi in se stesso, ha esaurito la sua carica vitale.
Questi due personaggi stranianti e distanti, chiusi nel bozzolo della loro personale solitudine in un luogo popolato da maschere, costituiscono il progetto Interno Bernhard.
Roberto Sturno e Glauco Mauri con alle spalle un ultra quarantennale sodalizio artistico giganteggiano, il primo nello stigmatizzare l’insolente rifiuto del mondo di un uomo rattrappito e ripugnante anche nel fisico, Mauri nel soliloquio, apparentemente pacato che sembra un flusso di coscienza, che è un’invettiva sul teatro e sul mestiere d’attore, vaneggiante dietro i fantasmi della mente che si materializzano. Con loro Stefania Micheli, Federico Brugnone, Zoe Zolferino e Giuliano Bruzzese, diretti da Andrea Baracco che ben veicola la sensazione di intrappolamento avvertita dallo spettatore. Le scene di Marta Crisolini Malatesta materializzano l’atmosfera cupa e alienante sottolineata dalle luci di Umile Vainieri, sul sottofondo delle musiche di Giacomo Vezzani e Vanja Sturno.
“Tra i più iconici nella drammaturgia della seconda metà del ‘900, Minetti e il Riformatore, non fanno assolutamente nulla per essere amati: il loro prepotente flusso verbale non lascia spazio al dialogo; la vocazione distruttiva nei confronti di ogni cosa o persona li circondi, non può che produrre una feroce e agognata solitudine. In poche parole, non sembra per loro esserci risarcimento possibile davanti alla beffa dell’esistenza – scrive nelle note di regia Andrea Baracco – L’unica possibilità di sopravvivenza sembra essere allora la ricerca della perfezione in campi che fino a poco tempo fa erano il luogo della bellezza, del senso; il teatro, la musica, la letteratura, la filosofia. Ed ecco allora il grande attore Minetti in attesa di recitare per l’ultima, sublime volta, il suo memorabile Lear; ecco che il Riformatore del mondo, nonostante abbia da tempo deciso di ritirarsi a vita solitaria, accetti una Laurea Honoris Causa per aver cercato, con i suoi scritti, di dare un senso al caos”.
Tania Turnaturi