Una strepitosa prova di attrici con un testo in cui si esalta la parola. Tre ruoli, tre caratteri che si amalgamano in una sinfonia a tre voci.
Il “matrimonio alla maniera di Boston” era una locuzione, in uso sulla costa atlantica degli Stati Uniti tra 800 e 900, per descrivere la convivenza sentimentale tra donne economicamente indipendenti da uomini.
Stati Uniti, fine Ottocento. In un salotto che sembra una casa di bambole o un set (in alto l’insegna luminosa “on air” lo evoca), Anna riceve Claire, con la quale un tempo ha intrattenuto una relazione sentimentale. Anna ha trovato un uomo ricco che la mantiene e la ricopre di regali, può quindi “riprendere” con sé la cara amica Claire che è venuta a trovarla e offrire agiatezza anche a lei. L’amica è stupita della trasformazione della casa, ma chiede ospitalità solo per avere un posto sicuro dove incontrare la sua ultima giovane conquista. Anna è stizzita, pensava di riprendere il ménage sentimentale vivendo entrambe alle spalle del suo protettore e si sente tradita da Claire, ma poi accetta ponendo delle condizioni, in un gioco di scaltra seduzione che scatenerà una serie di colpi di scena, con coinvolgimento della giovane cameriera, in un crescendo che cambierà le aspettative di entrambe. La vistosa collana di smeraldi regalata ad Anna dall’amante, farà emergere verità insospettabili e un intreccio di situazioni imprevedibili che sveleranno ipocrisie e meschinità dell’uomo, mai presente in scena.
Sarà la cameriera scozzese, con i suoi maldestri interventi, a inframmezzare il serrato confronto tra le due signore da cui emergono passione, gelosia, allusioni erotiche, sarcasmo, accuse di cedimento alle convenzioni borghesi, citazioni bibliche, espressioni forbite e linguaggio grossier. In tale crogiuolo di esercizio verbale e duello sentimentale, la goffa e ingenua cameriera è, ora vittima degli strali della padrona che ne sbaglia continuamente il nome e la umilia con battute sulla differenza di classe, ora oggetto di blandizie per suscitare la gelosia dell’amica. Catherine, con i suoi buffi intermezzi, costringe le duellanti a liberarsi dalla maschera della finzione, con effetti irresistibilmente comici.
Ambientato nell’Ottocento ma scritto nel 1999, il testo di David Mamet, nella traduzione di Masolino D’Amico, è un crepitio di variazioni linguistiche e registri interpretativi, dal linguaggio affettato e figurato dei salotti ottocenteschi a quello anticonvenzionale e spudorato degli anni ’90 che sfocia nell’insulto, con l’occhio ai lavori brillanti di Tennessee Williams e all’ironia di Oscar Wilde. Drammaturgo rappresentativo della scena americana, premio Pulitzer del 1984 e più volte candidato agli Oscar, Mamet in questo testo intinge la penna nel cinismo crudele che stigmatizza il perbenismo americano di fine secolo, ritmando un fuoco di fila di battute brillanti e umoristiche.
Maria Paiato nel ruolo di Anna è superlativa: bionda platino e vistosa nell’abbigliamento, è uno scoppiettio di parole che accompagnano il gesto plateale, con continui cambi di registro che stimolano ilarità dominando la scena, come quando si aggrappa allo stipite della porta come una caricaturale diva del muto, o solfeggia le mani per accompagnare la voce che trascolora dalla bonomia al graffio. Mariangela Granelli in contraltare è la mora Claire, che indossa un unico abito elegante e sobrio con manicotto, ma sfodera una verve pari alla sua antagonista nel duello verbale grondante umorismo grottesco frammisto a pungenti verità. Ludovica D’Auria ha la giusta dose di spaesamento e bislacca sbadataggine dell’ingenua cameriera, che rivelerà nel finale doti di atavica furbizia.
La regia di Giorgio Sangati calibra il ritmo di questa performance. La scenografia di Alberto Nonnato accentua l’aura di finzione che spira sul palcoscenico (parodia della vita), enfatizzata dall’insegna luminosa “on air” che campeggia in alto. Sontuosi i costumi ottocenteschi di Gianluca Sbicca. Luci di Cesare Agoni, musiche di Giovanni Frison.
Tania Turnaturi