trasforma in dramma il capolavoro della narrativa di Pirandello, “Il fu Mattia Pascal”. Percorso non facile dare una versione scenica ad un’opera che lo stesso autore non pensò mai di fare. A maggior ragione dobbiamo quindi riconoscere il successo dell’impostazione drammaturgica, registica e scenica elaborata da Tato Russo che è riuscita a catturare l’attenzione degli spettatori che alla fine hanno tributato un calorosissimo meritato applauso. La versione teatrale resta assai fedele nel concertato dialogico al testo del romanzo. Nel montaggio drammaturgico, con la tecnica del flash back, Tato Russo – mantenendo i dialoghi piacevoli essenziali senza preziosismi letterari – rende alla narrazione una fluidità e un’immediatezza sorprendenti.
Ed ora la storia in breve di Mattia Pascal che, sotto il peso di dissidi familiari, debiti e di un amore denegato lascia la casa e la famiglia, fugge a Montecarlo dove un colpo di fortuna lo rende ricco. Ma quando sta per ritornare legge la notizia che, nel suo paese, uno sconosciuto annegato in una roggia è stato identificato “frettolosamente” dai familiari per lui stesso, Mattia. La notizia lo scuote, lo sconcerta ma alla fine gli apre nuovi orizzonti. Si sente finalmente libero, senza nome, senza passato. Prende l’identità fittizia di Adriano Meis, si trasferisce a Roma in una piccola pensione dove, dopo poco tempo si innamora della giovane proprietaria. Tutto sembra andare nel verso giusto, ma una misteriosa cospirazione lo obbliga a fuggire. Capisce l’impossibilità di vivere fuori dalle leggi e dalle convenzioni che gli uomini si sono dati e scopre che fare il morto non è una bella professione. Decide quindi di farla finita anche con la nuova identità, simulando il suicidio di Adriano Meis nelle acque del Tevere. Non gli rimane che tornare nel paese d’origine dove scopre che la moglie si è risposata con un suo amico d’infanzia, ha avuto già una bambina e trascorre una vita tutto sommato serena. Arrivato con propositi di vendetta, Mattia Pascal ben presto li abbandona e si rende conto che d’ora in avanti non sarà altri che il fu Mattia Pascal. Non gli resta di andare ogni tanto al cimitero a portare un fiore sulla propria tomba.
E’, per concludere, la storia di un uomo che si finge morto per essere vivo e libero, ma che alla fine rimane vittima delle convenzioni sociali che gli impediscono di amare, di difendersi, insomma di vivere. Lo spettacolo si sviluppa, in una sorta di autoanalisi, sulla falsariga di un “lungo ricordo-incubo del protagonista che monologa, evoca e tenta di esorcizzare i propri ricordi, rappresentandoseli”.
In questa pièce si pone il problema, caro a Pirandello, dell’identità e “dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo… Storie di vermucci ormai, le nostre). E’ il tema della finzione, delle maschere che l’uomo indossa consapevolmente nella società borghese. E non si tratta di una scelta libera e volontaria, ma necessaria per difendersi e sopravvivere. Da questa imposizione nasce l’aspetto grottesco e straniante della condizione dell’uomo che, a furia di mettere e togliere la maschera a seconda delle circostanze, alla fine non sa più quale è la maschera e quale il volto. D’altra parte Pirandello si è limitato a teorizzare un comportamento opportunistico che è nella natura dell’uomo, frutto dell’intelligenza. La vita dunque è tutta una falsificazione. L’ipocrisia e l’opportunismo esaltano la doppiezza dell’uomo che, cambiando la maschera (tanto per rimanere in tema) si fa uno, nessuno, centomila.
Gran bella prova d’attore quella di Tato Russo, padrone della scena, vibrante interprete del dubbio e dell’angoscia pirandelliana cui non manca l’ironia e l’umorismo. Buoni gli altri attori che meritano tutti una menzione: Katia Terlizzi, Renato De Rienzo, Marina Lorenzi, Massimo Sorrentino, Francesco Ruotolo, Caterina Scalaprice, Francesco Acquaroli, Carmen Pommella, Antonio Rampina. Belle e funzionali le scene di Tonino Di Ronza, i costumi di Giusi Giustino, le musiche di Alessio Vlad.