La “sarabanda”, che da’ il titolo al dramma, è una danza piuttosto lenta e malinconica, dai tratti moderatamente severi, che sovente popola una “suite” classica.
In questa sua ultima creazione Bergman continua il ritratto dei personaggi di Scene da un matrimonio che a distanza di trent’anni si ritrovano, si confrontano e si scontrano tirando fuori rancori mai sopiti, rimpianti latenti, rimorsi inespressi. A differenza di “Scene di vita coniugale”, nel quale il plot era centrato su marito e moglie (Marianne e Johan), qui lo spazio parentale si allarga al figlio (Henrik), alla nipote (Karin) e a un personaggio, Anna la moglie di Henrik, morta da due anni, la cui commossa memoria è l’unico scoglio a cui si tiene aggrappato il residuale amore del gruppo.
Marianne, dopo trent’anni lascia la figlia handicappata e va, inattesa, a trovare Johan il cui algido cinismo non è sufficiente a scoraggiare Marianne dal tentativo di riaprire un dialogo con Johan il quale, incapace di sentimenti veri, coltiva un innaturale astioso disinteresse nei confronti del figlio che dolorosamente subisce e ricambia. Ma è l’amore che Henrik prova per la figlia Karin (un amore anche incestuoso) che illumina questo microcosmo rancoroso. Karin è l’unica che alla fine riesce a staccarsi da quel mondo di fantasmi e l’atto di addio è commentato dalla sarabanda contenuta nella Suite n.5 in do minore per violoncello (a catalogo BWV 1011) di Bach.
È un testo splendido, durissimo che conferma la fragilità, la impermanenza del rapporto di copia e il difficile rapporto fra padri e figli. Un testo che mette a nudo tutti i difetti dell’incomunicabilità dell’uomo e mette in risalto la tragedia delle scelte delle persone che non vogliono accettare la vita per quello che è, ma che in fondo rivelano una ricerca della dimensione del sacro. Quella di Bergman è una visionaria concezione della crudeltà, ma il suo equilibrio d’artista gli consente di non passare mai i limiti sopportabili dell’angoscia.
Tutti i personaggi hanno una caratura straordinaria, come straordinari sono gli interpreti. E’ difficile trovare un aggettivo che qualifichi, descriva, esalti l’interpretazione di Massimo De Francovich, Giuliana Lojodice, Luca Lazzareschi. Brava anche la giovane Clio Cipolletta.
I ritmi e i meccanismi teatrali sono perfetti grazie al bravissimo regista Massimo Luconi che ha curato la riduzione teatrale del testo e mantenuto l’impianto drammaturgico.
Molto belle nella loro semplicità (gli ambienti cambiano con il semplice movimento di una parete mobile) le scene di Daniele Spisa e dello stesso Massimo Luconi. Calorosissimi e meritatissimi gli applausi.