Mettiamola così: “Rumori fuori scena” di Michael Frayn è un mostro sacro, incubo nascosto e sogno segreto di tutte le compagnie amatoriali che ho conosciuto. Espressione estrema di teatro nel teatro, questa commedia è un meccanismo calibrato al millesimo che si trasforma in sincronia e attraverso la perfezione mette in scena l’errore.
Il primo atto, sul palco e in modo ancor più visibile nel testo, che avevo letto attentamente per prepararmi a uno spettacolo che si è rivelato essere davvero in lingua inglese anche se per un attimo l’avevo dimenticato, è diviso tra fuori e dentro. Si entra e si esce dalle prove di un’altra commedia, e gli attori protagonisti del dramma teatrale per cui noi abbiamo pagato il biglietto svestono i panni dei personaggi che sono intenti a interpretare, si tolgono le maschere che questo nuovo copione gli impone, e tornano ad essere quello che sono, o se vogliamo, ad interpretare questo ruolo più familiare. Tornano a quella che è la loro vita vera, anche se questa realtà ai nostri occhi rimane comunque una messa in scena.
Il secondo atto è rovesciato, diviso tra davanti e dietro, e mostra quello che di solito le quinte nascondono agli occhi del pubblico, in un gioco di malintesi, ritorsioni, contrattempi, sottotesti muti, mazzi di fiori sempre più piccoli, molteplici bottiglie di whisky.
Il terzo atto esplode. La realtà invade prepotentemente la finzione, travolgendo lo spettacolo e i suoi interpreti, cancellando tutte le distinzioni. Non ci sono più spazi riparati, non ci sono più angoli nascosti, non esiste più un dietro le quinte o un giù dal palco, tutto è portato allo scoperto, attori e personaggi si confondono: improvvisano.
Michael Frayn, in quest’opera che definire esilarante è dire poco, mette a nudo con ironia il nostro teatro quotidiano, la nostra piccola commedia, il nostro tentativo costante di seguire una trama, di dare alla vita una regia ben costruita. Ma inevitabilmente commettiamo degli errori, dimentichiamo le battute, non rispettiamo il copione, o usciamo dal personaggio, releghiamo la nostra vera natura al retropalco, dove sfugge al controllo fino a investire e stravolgere quello che credevamo un piano ben congegnato.
Al The Old Vic Theatre di Waterloo tutta questa commedia dell’errore è messa in scena con millimetrica precisione, sottolineando il paradosso di questo intricato virtuosismo del mondo del teatro, un mosaico di precisione dove ogni pezzo è collocato con esattezza al posto giusto ma simula di trovarsi in quello sbagliato. E sono degli attori di talento a renderlo possibile. Attori che portano sul palco i personaggi e i loro interpreti, che sovrappongono quello che fanno a quello che invece avrebbero dovuto fare, che memorizzano oltre al loro copione un testo che di fatto non esiste, tenendone a mente al tempo stesso incastri e intoppi per trasformarli entrambi in meticolosi gesti. Attori che come equilibristi in bilico sul filo si destreggiano tra borse, scatole, porte, sardine e parole. Artigiani, amanuensi certosini, piccoli ninja curatori di bonsai, precisi nel dettaglio dall’inizio alla fine di questi tre atti senza tregua e senza respiro. Perché l’unico modo di dare forma agli imprevisti della farsa è una regia ancor più scrupolosa di quella che serviva per metterla in scena. E questo “Noises off” ci riesce in maniera meravigliosa: è la decorazione minuziosa di una porcellana dell’antica Cina, è l’ingranaggio perfetto di un orologio di fattura svizzera, è pura geometria. Un gioco di porte e di sardine, perché in fondo il teatro non è altro che questo. E anche la vita. E se l’unica possibilità di fronte agli imprevisti con cui la vita inevitabilmente ci manda a sbattere è reagire, forse dovremmo accettare di rinunciare alla pianificazione e accogliere la leggerezza come soluzione, scegliere come antidoto all’imperfezione la risata, magari cominciando con quella che ci regala “Rumori fuori scena”.
Noises off (Rumori fuori scena) di Michael Frayn
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