Prima rappresentazione in assoluto dell’unica opera teatrale di Elsa Morante, a 45 anni dalla sua stesura, La serata a Colono non può lasciare indifferente lo spettatore, catarticamente messo nelle stesse condizioni del protagonista: un moderno Edipo, o sedicente tale, bloccato e bendato, accompagnato dalla figlia, un’Antigone che non richiama neanche lontanamente la donna forte e determinata delle tragedie sofoclee, così ingenua e spaurita, più vulnerabile del padre nonostante le condizioni di quest’ultimo. Arrivano, in una tiepida serata d’inverno, in un ospedale psichiatrico, che non si affaccia semplicemente sulla platea, ma la comprende, tutta attraversata dai ricoverati che ripetono incessantemente delle frasi stereotipate, delle esclamazioni, delle urla. Fulcro di tutta l’opera è il linguaggio; le parole viaggiano, padrone, da una parte all’altra della sala: le voci ridondanti, indistinguibili, spesso lamentose dei matti, la caratterizzante prolissità asintattica di Antigone, il brontolio scocciato dei medici, il tono fermo e rassicurante della suora, le frasi spezzate, accavallate fra loro di Edipo, il quale mescola la realtà con il delirio e trasmette questa confusione mentale a tutta la scena e a tutto il pubblico. Colpevole della sua agonia è il dio Apollo, il Sole bianco accecante, sferico nel suo modo greco di essere perfezione, che darà vita solo alla fine ai colori che Edipo cerca, togliendo anche allo spettatore la benda che impedisce di orientarsi nei mille significati dell’opera. Seppur immobile, cieco e malato, Edipo è l’unico che riesce a mettere insieme frasi di senso compiuto, affermazioni e giudizi su argomenti vari, anche apparentemente sconnessi, ma soli, nell’ambiente, ad arricchire. Le parole di Antigone sono dolci, compassionevoli, ma non esprimono che la beata e speranzosa ignoranza; le battute dei medici sono espressione di un sapere vacuo perché lontano dall’umanità, fine a se stesso. Gli enunciati dal carattere gnomico di Edipo sono sprazzi di autonomia di pensiero, di mente libera, e non nonostante la malattia, bensì grazie ad essa. Si assiste a un capovolgimento, del mito, delle situazioni quotidiane, del pensare comune, un ordine di cambiare rotta viene dall’autrice proprio alle porte della rivoluzione del ’68.