Grande opera comica in due atti di Richard Wagner su libretto proprio, da Measure for Measure di W. Shakespeare
Personaggi e interpreti:
Friedrich: Tuomas Pursio
Luzio: Mark Adler
Claudio: Mikheil Sheshaberidze
Antonio: Cristiano Olivieri
Angelo: Gianfranco Montresor
Isabella: Lydia Easley
Mariana: Anna Shoeck
Brighella: Christian Hübner
Danieli: Pietro Toscano
Dorella: Francesca Micarelli
Ponzio Pilato: Federico Lepre
Maestro concertatore e direttore: Oliver von Dohnányi
Regia: Aron Stiehl, ripresa da Philipp M. Krenn
Scene: Jürgen Kirner
Costumi: Sven Bindseil
Datore luci: Claudio Schmid
Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Teatro Lirico “G. Verdi di Trieste”
Maestro del coro: Paolo Vero
Nuova produzione del Bayreuther Festspiele (BF-Medien GMBH) e della Opera Leipzig in collaborazione con la Fondazione Teatro lirico “Giuseppe Verdi di Trieste”
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Inaugurare la stagione 2014-2015 con Das Liebesverbot è stata la scelta encomiabile e audace del Teatro G. Verdi di Trieste, perché ha permesso di apprezzare, finalmente anche in Italia, il lavoro di un Wagner poco più che ventenne. Risalente infatti agli anni di Magdeburgo, dove alla prima del 1836 il pubblico ne sancì l’insuccesso, destinandolo al dimenticatoio fino al XX secolo inoltrato, Il divieto d’amare è palesemente influenzato dallo stile dell’opera buffa italiana e francese, generi di sicuro studiati dal compositore attraverso la direzione dell’orchestra del teatro locale. L’Ouverture, dal ritmo frenetico ed esotico, suggerito dalle nacchere e dal tamburello, richiama non solo quelle auberiane di Fra Diavolo (1830) e Le cheval de bronze (1835), ma anche quella di Raymond ou Le secret de la reine (1831) di Thomas, introduzioni caratterizzate dall’abbondante e, oserei dire, compiacente impiego, nei tempi iniziali e conclusivi, di un ampio apparato percussivo formato da piatti, grancassa e triangolo. Si alternano momenti gai di chiaro stampo donizettiano, come il duetto Aha, du bist’s! Nur näher’ran tra Brighella e Dorella, simil parodia de La Nina gondoliera ne L’elisir d’amore (1832), e rossiniano, come il concertato finale del I atto. E’ negli episodi di natura prettamente lirica che iniziano a germinare le peculiarità del linguaggio wagneriano maturo: il leitmotiv, il cromatismo di specifiche linee melodiche, il canto dispiegato generosamente nel narrare eventi extrascenici, i continui passaggi, sapientemente modulati, tra registri differenti… Non stupisce notare, quindi, il legame filiale che unirà la celebrativa Dich, teure Halle di Elisabeth nel Tannähuser all’aria di Isabella So sei’s! Für seinen feigen Wankelmut nel Das Liebesverbot, per le evidenti affinità di dialogo tra solista e organico strumentale.
La vicenda è liberamente adattata da Measure for Measure di Shakespeare. Wagner, considerando l’Italia “Das Land des Lächelns”, terra dove la libertà sessuale è all’ordine del giorno e l’eros si affranca da qualsiasi morale, delocalizza gli eventi da Vienna a Palermo, a voler sottolineare anche il netto contrasto tra la serietà teutonica e la vitalità mediterranea. Friedrich, vicario del re, vieta qualsiasi fornicazione, abolendo il Carnevale e condannando a morte chiunque venga colto in flagrante. Grazie alle astuzie di Isabella, la scaltra sorella del reo Claudio, il potere capitolerà e, ancora una volta, l’amore trionferà.
La proibizione dei sentimenti amorosi è un tema attuale, se si pensa – lo dichiara il regista Aron Stiehl – al peso della morale, della politica e della religione nella vita di qualsiasi individuo. Nell’uomo alberga la bestia, presenza in eterna lotta tra espressione e repressione, che necessita di regole ma non di imposizioni. L’allestimento, ripreso da Philipp M. Krenn, si articola, per mezzo di pannelli scorrevoli ideati da Jürgen Kirner, su tre ambienti essenziali: la giungla, luogo di sfrenata promiscuità; la sala delle udienze, colma di tanti cassetti numerati quanti sono i palermitani; il convento delle Elisabettine. Mascheroni con l’effigie di Friedrich invadono la scena all’uscita del Corso del Carnevale nel II atto ed è impossibile non coglierne la somiglianza con Guy Fawkes, simbolo libertario inglese, in un cortocircuito di significati. I costumi di Sven Bindseil optime evidenziano istinto e ragione, poli opposti dell’umanità, perché, se nella foresta si indossano le più svariate fogge animalier, nel tribunale l’identità personale è annullata da un’unica divisa.
Il cast ha annoverato gradevoli rivelazioni e inaspettate delusioni. Splendida l’Isabella di Lydia Easley! Il soprano americano possiede una voce omogenea potente, costantemente sicura nell’acuto e dal fraseggio corretto, in un perfetto connubio tra canto e recitazione, grazie anche all’indiscutibile presenza scenica. Ottimo pure Tuomas Pursio, nella parte del gelido e impettito Friedrich, e Christian Hübner, un Brighella disinvolto e marpione. Anna Shoeck ha incarnato una Mariana dalla voce educata, pulita e dolce, dai bei colori pastello. Il Claudio di Mikheil Sheshaberidze si è dimostrato al di sotto di ogni aspettativa, a causa della pessima intonazione e della disomogeneità vocale, in evidente difficoltà nel registro acuto. Francesca Micarelli, anch’essa deficitaria d’intonazione e debole nell’emissione, si riscatta però per la bravura attoriale con cui rende seducente e disinibita Dorella. Nella media gli interpreti secondari: Mark Adler (Luzio), Cristiano Olivieri (Antonio), Gianfranco Montresor (Angelo), Pietro Toscano (Danieli) e Federico Lepre (Ponzio Pilato).
Il Coro, adeguatamente preparato da Paolo Vero, si è impegnato in una lodevole prestazione che si è beata di una compattezza e una precisione invidiabile.
Oliver von Dohnányi ha diretto l’orchestra in maniera spigliata, riuscendo a non coprire i cantanti, permettendo così di apprezzarli appieno, e restituendo le suggestioni sia delle tinte esotiche, divertendosi a lanciare sporadicamente le percussioni in un pericoloso sferragliamento, sia di quelle drammatiche di questa rara ma assai piacevole opera wagneriana.
Applausi del non nutritissimo pubblico, con tanto di ovazioni per Easley, Pursio e Hübner,