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La traviata

Foto di Ennevi
Foto di Ennevi

Melodramma in tre atti

Musica di Giuseppe Verdi

Libretto di Francesco Maria Piave

 

Personaggi e interpreti:

Violetta Valéry: Jessica Nuccio

Flora Bervoix: Elena Serra

Annina: Alice Marini

Alfredo Germont: Antonio Poli

Giorgio Germont: David Babayants

Gastone: Antonello Ceron

Barone Douphol: Nicolò Ceriani

Marchese d’Obigny: Dario Giorgelè

Dottor Grenvil: Gianluca Breda

Giuseppe: Francesco Pittari

Domestico; Commissario: Romano Dal Zovo

 

Direttore: Marco Boemi

Regia e luci: Henning Brockhaus

Bozzetti scenografici: Josef Svoboda

Ricostruzione scenografica: Benito Leonori

Costumi: Giancarlo Colis

Coreografia: Valentina Escobar

Orchestra, Coro, Corpo di ballo e tecnici dell’Arena di Verona

Maestro del Coro: Vito Lombardi

Direttore del Corpo di ballo: Renato Zanella

Direttore allestimenti scenici: Giuseppe De Filippi Venezia

Allestimento Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi dai bozzetti scenografici di Josef Svoboda

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Al Teatro Filarmonico di Verona La traviata ha mostrato il “lato b”. Si, perché l’impianto scenico ideato da Josef Svoboda adempie splendidamente a tale scopo. Sul fondo, uno specchio rettangolare inclinato riflette i variopinti bozzetti, abilmente ricostruiti da Benito Leonori, veri e propri tappeti stesi sul palcoscenico. Soggetti erotici campeggiano a bella posta durante le feste delle due cortigiane, mentre una casa di campagna, un prato di margherite, allusive a Marguerite Gautier del romanzo di Dumas fils, e un album di famiglia traducono la sfera intima del buen retiro amoroso, fino alla camera disadorna della morente Violetta. Svoboda pare così sussurrarci all’orecchio un mesto vanitas vanitatum. L’occhio rimane, quindi, impressionato di fronte a cotanta forzata e spaesante verticalità che culmina inaspettatamente nel finale, quando lo specchio si raddrizza, facendo diventare il pubblico parte integrante della vicenda. Chi scrive rimane comunque convinto di quanto sia riduttivo restituire a parole le molteplici sensazioni stimolate nello spettatore da questa scenografia, convinto che la piena comprensione possa avvenire solo attraverso la visione diretta.

La regia di Henning Brockhaus è funzionale al libretto, rappresentato appropriatamente dagli effetti che si creano tra i cantanti e le scene. I preziosi ed eleganti costumi di Giancarlo Colis, oltre a rivestire Violetta di una certa eroticità propria della sua condizione, giocano un ruolo simbolico non indifferente. La traviata, infatti, fa il suo ingresso avvolta in una candida veste, con guêpière ben in vista, creando un iconico scarto tra la verginità nuziale del bianco e il noto status di mantenuta. Nella soirée spagnola, ove le coreografie di Valentina Escobar trovano ampia pertinenza, le tinte rosse e nere rimembrano il classico dualismo tra eros e thanatos, tra la Dama di picche e la Regina di cuori.

Il cast si è rivelato mediocre, eccezion fatta per il tenore protagonista. L’evidente stato d’indisposizione in cui versava Jessica Nuccio ha reso Violetta eroina “verista”. La voce si percepiva debole nell’intonazione e nel volume, tanto che Teneste la promessa dalla platea si è compreso a mala pena. Il pessimo attacco del concertato finale del secondo atto e una battuta non eseguita in Prendi, quest’è l’immagine hanno bollato dimenticabile la prestazione. Promosso a pieni voti l’Alfredo di Antonio Poli, il migliore tra tutti, che grazie a omogeneità, ottima impostazione, politezza e sicurezza vocale ha ritratto con giusto ardore l’infelice innamorato. David Babayants è parso inespressivo nel canto e nella mimica, un Germont padre privo di qualsiasi spessore drammaturgico. Elena Serra e Alice Marini hanno puntato più sulla recitazione che sull’esecuzione canora. Corretto il resto dei comprimari, Antonello Ceron, Nicolò Ceriani, Dario Giorgelè, Gianluca Breda, Francesco Pittari e Romano Dal Zovo.

Buona la prestazione del Coro, preparato dal maestro Vito Lombardi.

La direzione disomogenea di Marco Boemi non ha reso giustizia al linguaggio musicale verdiano, qui costituito da leggerezza, bellezza e tragicità. I tempi eccessivamente strascicati non favorivano i cantanti, come non erano d’aiuto certe scelte dinamiche, quali la presenza wagneriana degli ottoni e gli archi lanciati verso metallici panorami sonori. Qualche dubbio permane anche sulle scelte agogiche.

Applausi entusiasti per tutti, con Nuccio visibilmente sofferente.

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