«Nei concerti facciamo un sacco di improvvisazioni. Le performance, più o meno, rimangono le stesse nella durata, ma ciò che accade dentro, a parte le linee melodiche, si modifica ogni volta. C’è un sacco di complicità tra il batterista, il bassista e il chitarrista e, grazie a loro, sono rinomato per usare la mia voce come uno strumento». (Robert Plant, A.P. 1973)
Dopo l’uscita di “Houses Of The Holy”, siamo nella primavera del 1973, i Led Zeppelin tornano negli Stati Uniti per una nuova tournèe che, ancora una volta, regalerà, ai quattro ragazzotti inglesi, la naturale frantumazione di ogni precedente record di presenze, sino ad arrivare ad abbattere la leggenda dei Beatles e del loro concerto, nel 1965, allo Shea Stadium (Qui mi scorre la lacrima in quanto quello stadio, che era dei New York Mets, non esiste più. Lo hanno buttato giù per costruirne un altro appena un po’ più in là, verso l’esterno centro, gli estimatori del baseball capiranno. Lo hanno chiamato Citi Field, ci giocano sempre i Mets, e serve sempre la linea 7 della metropolitana per arrivarci. La lacrima è scorsa perché almeno ho fatto in tempo a vederci una partita allo Shea, ma faccio il tifo per gli Indians).
La data storica arriva il 5 di maggio di quell’anno, al Tampa Stadium in Florida di fronte a. 56.800 spettatori, un numero spropositato per un concerto di un singolo artista, i festival sono un’altra cosa. Questa la setlist di quel concerto: Rock and Roll, Celebration Day, (Bring It On Home intro) Black Dog, Over the Hills and Far Away, Misty Mountain Hop, Since I’ve Been Loving You, No Quarter, The Song Remains the Same, Rain Song, Dazed and Confused (incl. San Francisco), Stairway to Heaven, Moby Dick, Heartbreaker, Whole Lotta Love (incl. Let That Boy Boogie), The Ocean, Communication Breakdown. (fonte ledzeppelin.com)
La cavalcata attraverso gli Stati Uniti prosegue con l’aeroplano che porta il nome della band del dirigibile, quindi è un attimo fare il tutto esaurito per tre date anche al Madison Square Garden di New York. Quella performance sarà immortalata in un film, e in un disco doppio, dal titolo “The Song Remains The Same” che uscirà tre anni dopo.
Intanto altre leggende fioriscono, perché si sa che la musica, da se, non basta a fare leggenda. Quindi i Led Zeppelin diventano distruttori di alberghi, interpreti di smodate avventure sessuali, uno squalo nella vasca da bagno, uso frequente di sostanze poco edificanti. A parte che lo scenario testé presentato è accomunabile a qualsiasi band di quel periodo e non solo, mentre lo squalo forse c’era davvero, c’è da dire che gli interpreti di questa novella non frequentavano modelle famose, non venivano messi in carcere per detenzione di sostanze stupefacenti, non si atteggiavano esponendo enormi labbroni, neppure consorti giapponesi. Qualcosa si doveva pur dire e, di sicuro, qualcosa di abominevole è pure successa. Ma per ognuno che vi decanterà le poco celebri imprese, fuori dal palco, degli Zeps, ci sarà sempre qualcuno che vi dirà: «Suonavano almeno per tre ore di fila, dando tutto di se stessi, sapendo che il giorno dopo erano chiamati alla stessa responsabilità. Alla fine di ogni concerto non vedevano l’ora di prendere il loro aereo e riposarsi per qualche ora».
Una data dietro l’altra, acuti impareggiabili, ogni sera dopo l’altra. Così lo strumento di Robert Plant si trova ad avere bisogno di un tagliando, mentre il 1973 sta per esaurirsi come il contratto con l’Atlantic Records. Ma c’è l’inventiva, e un altro album che sta prendendo forma. Si ritorna a Headley Grange, con un primo tentativo nel mese di novembre. Ma oltre alla momentanea defezione di Plant per l’operazione ai noduli delle sue corde vocali (“mi imposero di stare zitto per tre settimane”), John Paul Jones cade in una crisi mistica, con la volontà di lasciare il gruppo per diventare il direttore del coro della cattedrale di Winchester.
Peter Grant usa tutto il suo tatto (incredibile se si pensa che spaccò sulla testa ad un ufficiale della polizia canadese, intento a controllare i decibel del concerto, l’apparecchiatura scambiata, invece, per la registrazione di un “bootleg”, la musica pirata dell’epoca), capendo che lo stress di Jones era dovuto dalla incessante tournèe di quell’anno e che aveva solo bisogno di staccare un po’ dagli Zeppelin. Così, dopo il Natale del 1973, Jones arriva a Headley Grange, raggiunto poco dopo dalla nuova, ma inconfondibile, voce di Robert Plant. Tra gennaio e febbraio del 1974, i Led Zeppelin registrano otto nuovi brani per una nuova etichetta, la loro.
Il 10 maggio del 1974 nasce la “Swan Song” (Canto del cigno), con l’Atlantic Records che ne seguirà amichevolmente la crescita, pensata e ideata da Peter Grant non solo per dare alla “sua” band tutta la libertà possibile, ma anche per promuovere artisti che non trovavano spazio tra le majors.
Il logo scelto prende spunto da un quadro di William Rimmer del 1869 dal titolo “Evening”, conosciuto anche come “The Fall Of Day”, se passate per Boston sappiate che è esposto al “Museum of Fine Arts”.
L’etichetta darà spazio e notorietà a Bad Company e The Pretty Things, i primi ad incidere ed essere pubblicati, come anche Maggie Bell, Dave Edmunds, Detective e, dopo, i Midnight Flyer.
Otto pezzi nuovi ma con una durata spropositata, impossibile da contenere nei solchi di un solo disco. I Led Zeppelin e Peter Grant, invece di ridurre o modificare i brani, decidono di produrre un LP doppio, attingendo al vasto materiale che era rimasto fuori dai tre album precedenti. Una scelta rischiosa, soprattutto per le tasche dei fans che dovevano confrontarsi con il lusso di un doppio album. Una lunga attesa con il 1974 passato a lanciare la nuova etichetta mentre l’album doppio prendeva forma con i missaggi negli Olimpic Studios di Londra, con la sua impareggiabile copertina (prima puntata, ndr) ed il brano più lungo e quello più corto nella storia dei Led Zeppelin.
Viene pubblicato il 24 febbraio del 1975 e sebbene abbia compiuto da poco i quarant’anni, resta una delle pietre miliari della discografia rock e, forse, il migliore dei Led Zeppelin. I brani nuovi, sebbene proseguano nella ricerca di sonorità sempre più evolute, si miscelano alla perfezione con quelli più datati, diventando la summa definitiva del loro lavoro in studio, il viaggio perfetto del dirigibile in ogni aspetto del loro repertorio.
Il successo riscosso dall’album ebbe un effetto galvanizzante per la reputazione internazionale del gruppo e, nonostante i record di vendita già all’attivo, dopo l’uscita di “Physical Graffiti” tutti e cinque i precedenti dischi dei Led Zeppelin rientrarono in classifica dei 200 album più venduti, fatto mai accaduto prima nella storia del rock.
Il gruppo inizia una nuova e trionfale tournèe, partita negli Stati Uniti per terminare in Gran Bretagna con cinque concerti all’Earsl Court di Londra che, manco a dirlo, registrarono il tutto esaurito. E una parte della stampa li definì: “The biggest band of the Seventies”.
Side One
C’è il tipico marchio del dirigibile su questo rock il cui testo prende spunto e rende omaggio all’era di Robert Johnson, citando frasi di canzoni di, adesso, celebri bluesman. Come “Drop Down Mama” di Sleepy John Estes,
“Shake ‘Em On Down” di Bukka White e “I Want Some Of Your Pie” di Blind Boy Fuller. Alcuni sostengono, proprio per il motivo di avere usato testi altrui, si possa trattare di plagio, evidentemente essi non si curano delle citazioni sotto forma di omaggio e riconoscibilità per chi ha scritto quelle parole. Il cui sunto è solo un inno al sesso orale, riferito al genitale femminile, la cui torta di crema è: “Your custard pie, yeah, sweet and nice/chewin’ a piece of your custard pie”.
All’inizio, nel 1970 ai tempi di Bron-Yr-Aur, era stata concepita come brano acustico. La prima registrazione, quasi nella veste attuale, viene fatta a Stargroves durante le registrazioni per “Houses Of The Holy” nel 1972. Inspiegabilmente, dirà qualcuno, fu lasciata fuori dal suddetto album, ma gli overdubs fatti poi da Jimmy Page nel 1974, che le conferiscono ancora maggiore potenza, la rendono un blues che spiega il perché di album doppio, senza il quale un gioiello sarebbe rimasto, forse, nell’oblio. Sarebbe stato un peccato perdersi una delle migliori parti di chitarra suonate da Page, non vi pare?
3 – In My Time of Dying (Bonham, Jones, Page, Plant)
È il brano con il maggiore minutaggio che i Led Zeppelin abbiano mai inciso in studio. Del resto anche l’origine del brano si perde nel tempo. “In My Time of Dying” (chiamata anche “Jesus Make Up My Dying Bed” o conseguenti variazioni del nome del brano) è un gospel tradizionale le cui prime tracce si trovano nel libro di Robert Emmet “Kennedy’s Mellows – A Chronicle of Unknown Singers” pubblicato nel 1925. Nell’ottobre del 1926 il reverendo J.C. Burnett registra una prima versione “Jesus Is Going to Make Up Your Dying Bed” ma non venne mai pubblicata. La leggenda narra che Blind Willie Johnson abbia ascoltato quella registrazione o almeno imparato alcuni tratti del testo, così che alla fine del 1927 pubblica “Jesus Make Up My Dying Bed”. Due anni dopo Charlie Patton registra una sua versione, cambiando alcune liriche “Jesus Is A-Dying Bed Maker”.
Saltiamo al 1933 quando Josh White la pubblica tornando al titolo datole dal reverendo Burnett, ma tra il 1944 e il 1946 registrerà il brano con il titolo “In My Time of Dying” , che ispirerà molte versioni. Come quella di Bob Dylan nel 1962, “In My Time of Dyin’”.
Nell’inverno del 1974, ad Headley Grange, i Led Zeppelin la fanno propria creando un blues che riporta al profumo delle piante di cotone ed un testo nuovo nel significato (alcuni ci hanno letto anche una feroce critica al regime fiscale inglese che li aveva costretti, come altri colleghi, all’esilio “finanziario”). Il riverbero della batteria di Bonham fu ottenuto sfruttando l’eccezionale acustica della tromba delle scale nella casa vittoriana, alla base della quale fu posto lo strumento, come era stato fatto per “When the Levee Breaks” in “” Mentre Jones offre il meglio del suo virtuosismo al basso.
La piccola storia di questo brano nato chissà da dove, e chissà da chi, e fatto proprio dai vari artisti che si sono succeduti, forse è l’esempio più lampante del passaggio delle memorie dalle piantagioni alle epoche recenti, trasformate dal cesellature di turno. Certo forse i Led Zeppelin, oltre ai loro quattro nomi, avrebbero potuto aggiungere nei crediti il solito “Arr. Traditional”, ma da qui a farli passare a saccheggiatori del blues ce ne vuole. Anche perché nessuno ha mai accusato nello stesso modo Dylan o tutti quei colleghi che hanno fatto esattamente la stessa cosa con una miriade di altri brani. E poi lo slide di Page, imitando l’antico collo di bottiglia strusciato sulle corde, con la sua chitarra con accordatura aperta in Mi (Mi – La – Mi – La – Do# – Mi) è sublime, mentre Plant presenta il brano come un “vecchio canto”, Earls Court 1975:
Side Two
4 – Houses of the Holy (Page, Plant)
Ovvero la strana storia di una canzone che ha dato il nome all’album precedente ma che, invece, si trova pubblicata in questo. Nel maggio del 1972 i Led Zeppelin hanno solo pensato che non si adattava al disco omonimo, mentre il produttore discografico Rick Rubin osserva: «Questo è un funk jam con accordi jazz, molto interessante. Forse il brano dove loro hanno compattato di più le loro sensazioni del momento».
5 – Trampled Under Foot (Jones, Page, Plant)
Una donna paragonata ad un’auto, un testo divertente tutt’altro che misogino, che prende ispirazione da “Terraplane Blues” di Robert Johnson del 1936 (Una Terraplane era considerata un auto classica e la canzone usa parti di essa come metafora sessuale). Un trascinante funky rock che, come dichiarato da John Paul Jones, strizza l’occhio a Stevie Wonder. Un pezzo che spopola in radio e molto amato dalla band, quindi come “No Quarter”, sarà sempre presente in tutti i loro concerti, compresa la reunion del 2007. E proprio come in “No Quarter”, questo brano mette in luce l’abilità, anche dal vivo, di Jones alle tastiere. Un’altra nota di merito è che ha fatto parte della tracklist alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Londra nel 2012. I Led Zeppelin registrarono anche un’altra versione con una struttura leggermente differente, è uscita qualche settimana fa su iTunes e fa parte dell’album remasterizzato pubblicato il 23 febbraio scorso:
6 – Kashmir (Bonham, Page, Plant)
Per me, il vostro arrockettato scribacchino, è la canzone. Non solo di questo disco e non solo dei Led Zeppelin. Dave Lewis: «Senza dubbio il pezzo più sorprendente e impressionante di “Physical Graffiti” e, probabilmente, il più progressista e originale che la band abbia mai registrato. “Kashmir” ha fatto un lungo viaggio, verso l’affermazione della credibilità dei Led Zeppelin anche in critici che, senza questa brano, sarebbero rimasti scettici. Molti considerano questo capolavoro come il migliore esempio della maestosa e speciale alchimia dei Led Zeppelin». (“The Complete Guide to the Music of Led Zeppelin”, Omnibus Press, 1994).
Tutto nasce a Headley Grange nel novembre del 1973, ci sono solo Bonzo Bonham e Jimmy Page. Plant era ricoverato per riassettare le corde vocali logorate da tutti quegli urli in tutti quegli anni, Jones alle prese con la sua crisi mistica mirata alla direzione di un coro ecclesiale. Page inizia accordando la sua Gibson Les Paul “Number two” in una geniale e innovativa apertura in REsus4 (Re – La – Re – Sol – La – Re), Bonham lo segue picchiando forte sul suo strumento con la supervisione del tecnico Ron Nevison. «Credo proprio che sia una delle nostre migliori composizioni». (Jimmy Page).
Il figliol prodigo, Jones, torna all’ovile e aggiunge le sue tastiere, ma per “punizione” non comparirà nei crediti: «Il segreto del successo delle parti di tastiera è quello di suonarle come sarebbero eseguite realmente dagli archi. Cioè, un rigo del pentagramma dedicato ai primi violini, uno per i secondi violini, uno per le viole, uno per i violoncelli e uno per i bassi. Si possono condividere alcune parti (due o più note su ogni rigo) ma sempre tendendole al minimo. È un metodo, niente di più». (John Paul Jones)
Manca il testo e a questo ci pensa Plant, che lo aveva già immaginato qualche mese prima durante un viaggio nel sud del Marocco, guidando da Goulimine a Tantan nel pieno del deserto del Sahara, senza sapere che sarebbe stato abbracciato da quella musica: «L’ispirazione mi venuta su quella strada che continuava quasi all’infinito. Una sola carreggiata che, ordinatamente, tagliava le colline di sabbia, come se stessi guidando in un canale fatiscente, che non aveva mai fine. – Oh, lascia che il sole batta sulla mia faccia, le stelle per riempire i miei sogni – Kashmir è la canzone definitiva dei Led Zeppelin, una delle mie preferite». (Robert Plant). Earls Court:
Anche se il titolo del brano cita una zona dell’Asia che nessuno dei Led Zeppelin ha mai visitato, nel 1994 Page e Plant la riportano alle sue origini magrebine, eseguendola a Marakesh con l’arrangiamento del talentuoso produttore egiziano Hossam Ramzi che dirige l’ensamble alle loro spalle. Con Jones che ancora non si capacita del motivo per il quale ne è stato escluso (Ottava puntata, ndr), non mancano accenni, sul finire, a “Black Dog” e “Whola Lotta Love”:
Le note di “Kashmir” sembreranno familiari ai non adepti del dirigibile. Puff Daddy la userà come riff trainante per la colonna sonora di “Godzilla” (imperdibile l’esibizione con Jimmy Page nel “Saturday Night Live”), mentre i fruitori di “X-Factor” la riconosceranno come intro alle esibizioni dei concorrenti fino ad un paio di edizioni fa.
Ma arrangiamento arabeggiante, fantastico, a parte, Jones rimugina ma, alla fine, comprende che per sostituirlo serve un’orchestra di archi intera. Non ci credete? Questo è quello che è accaduto nel 2007 in “Celebration Day”, con Jason Bonham, il figlio di Bonzo, alla batteria. Inutile dirvi che sono solo e sempre in tre a suonare e uno a cantare:
«Kashmir è l’essenza del sound dei Led Zeppelin». (John Paul Jones)
Side Three
7 – In the Light (Jones, Page, Plant)
Che una o uno, a questo punto, aveva riposto il primo disco grande e tutto nero. Curandosi di toccarlo il meno possibile, infilato nella sua carta tutta decorata. Sospirando per quello che era appena stato suonato. Quindi prende, con la stessa cura, il secondo grande e nero 33 giri. La puntina inizia a suonare ed è ancora magia con
Jones e il suo sintetizzatore, Page con l’archetto del violino che, questa volta, viene usato su una chitarra acustica. Il brano prende spunto da una vecchia canzone degli Zeppelin, rimasta sempre in embrione, che si doveva chiamare “In The Morning” o forse “Take Me Home”. “In the Light” non venne mai eseguita dal vivo poiché,all’epoca, era impossibile replicare perfettamente la complessa struttura armonica delle tastiere. Il rispetto, e la classe, per chi pagava il biglietto del concerto, la certezza che sia un brano splendido, siete liberi di pensarla diversamente, che miscela il blues, il progressive, e il mistero. Con Jones al massimo. Ma se vi capita di incontrare Robert Plant chiedetegli cosa ne pensa di questa canzone. Non stupitevi se vi farà un grande e soddisfatto sorriso.
Come denuncia il titolo, fu proprio scritta in quella specie di rudere senza nemmeno l’acqua corrente, nel luglio del 1970. È il brano più corto registrato dal dirigibile, ma la sua chitarra è eterna. Pensata per “III” fu sostituita dalla sorella “Bron-Yr-Aur Stomp”.
9 – Down by the Seaside (Page, Plant)
Anche questo brano arriva dalle vecchie pietre di Bron-Yr-Aur, inizialmente, come un pezzo acustico. Nel 1971 fu riscritta con un arrangiamento elettrico per inserirla in “”, ma poi fu tolta dalla tracklist di quel disco leggendario. La canzone risente dell’influenza di Neil Young, al quale è dedicata, come mostra la voce volutamente nasale di Plant in segno di omaggio al grande cantautore canadese e alla sua voce così caratteristica. Nel 1995 Plant la registrò in duetto con Tori Amos per l’album tributo “Led Zeppelin Encomium”.
10 – Ten Years Gone (Page, Plant)
«Un pezzo profondo e riflessivo, con riff ipnotici che si intrecciano. Luce e buio, ombre e riflessi splendenti. È come se la natura (umana) uscisse fuori dagli altoparlanti». (Rick Rubin)
Un amore giovanile, di dieci anni prima, con la carriera che si contrappone e lo interrompe: «Lasciate che vi racconti una storia dietro a “Ten Years Gone” del nostro nuovo album. Mi stavo facendo un culo così prima di entrare a fare parte dei Led Zeppelin. Una lady a me molto cara e che amavo, mi disse: “O me o i tuoi fans”. Non avevo ancora i miei fans, ma le dissi: “Non riesco a smettere, devo andare avanti con la mia voce”. Immagino che adesso sia abbastanza contenta della sua vita, con una lavatrice che fa tutto da se e una piccola auto sportiva. Non avevamo più nulla da dirci, allora. Potrei riferirmi a lei, ma lei non si poteva relazionare a me. Temo che siano passati dieci anni, in ogni caso è una scommessa scegliere anche per voi». (Robert Plant, 1975).
Side Four
11 – Night Flight (Jones, Page, Plant)
Scritta in gran parte da Jones, il testo di Plant racconta la storia di un giovane che tenta di sfuggire alla leva militare. La versione originale fu registrata ad Headley Grange tra il dicembre del 1970 e il gennaio del ’71, riversata dagli studi dell’Island Records faceva parte dei pezzi nati durante la registrazione del quarto album. È uno dei pochi brani del catalogo dei Led Zeppelin senza un assolo di chitarra.
12 – The Wanton Song (Page, Plant)
Una canzone dedicata ad una donna sfrenata non può essere che un rock aggressivo, zeppo di controtempi e, nei riff di Page, bellissime divagazioni in stile progressive rock ed il suono particolare della chitarra nasce da un effetto doppler ottenuto, insieme, con l’Hammond di Jones. Anche questo brano nasce da una jam session (ma questi, quanto si sono divertiti a suonare?) a Headley Grange all’inizio del ’74. Il settimo brano inedito di “Physical Graffiti” sarà presente nei tour per tutto il 1975, poi tolto, e ripresentato dal duo Page-Plant nelle loro tournèe del 1995 e 1998.
13 – Boogie with Stu (Bonham, Jones, Page, Plant, Mrs. Valens, Ian Stewart)
Un’altra jam session proveniente dal calderone che sfociò, poi, in “”, con Ian Stewart (ricorderete, road manager e tastierista dei Rolling Stones) al piano e, chiamato dagli Zeppelin affettuosamente, Stu. Doveva rimanere a se stante, per quello che era, con la reale leggenda che Plant suona la chitarra e Page il mandolino.
«Accadevano delle cose incredibili. Come quando Stu si mise a suonare un pianoforte scordato, non voleva che registrassimo, ma era troppo bello, il nastro partì e noi gli andammo dietro». (Jimmy Page)
Nei crediti, oltre a Stu compare il nome della signora Valens, la madre di Ritchie Valens (sì, proprio l’autore de “La Bamba”, scomparso troppo presto in un incidente aereo) perché quella jam session, nata in quel modo strampalato, prese spunto da “Ooh, My Head” di Valens
E Jimmy Page ha qualcosa da spiegare in proposito: «Sapevamo che la madre di Ritchie non aveva mai ricevuto le royalties per nessuno dei successi del figlio. Quello che abbiamo cercato di fare è stato di rimediare alla nostra maniera, con Robert che ha preso un po’ di quel testo e mettendo il nome dei Valens nei crediti. E cosa è successo? La casa discografica di Valens ci ha fatto causa per tutta la canzone». Infatti la Kemo Muisc presentò una denucia per violazione del copyright. Sebbene anche la signora Valens abbia avuto da obiettare circa l’entità dei diritti del brano pubblicato dai Led Zeppelin, tutto, pare, sia andato a lei.
14 – Black Country Woman (Page, Plant)
L’ultimo brano recuperato, un bel blues con Plant all’armonica, rimasto fuori da “Houses Of The Holy”, e registrato open-air nel giardino di Jagger a Stargroves nel maggio del ‘72. Infatti, all’inizio, si sente la voce dell’ingegnere del suono Eddie Kramer che dice: «Dobbiamo registrare Jimmy? Registriamo cosa?». Jimmy risponde: «Sì, un’altra ancora». Kramer replica: «Non voglio tenere il rumore di questo aereo». Questa volta interviene Plant: «Noo, lascialo dai». Sebbene può essere pericoloso registrare all’aria aperta, una volta, però a Headley Grange, Plant fu attaccato da uno stormo di oche inferocite. Il titolo fa riferimento ad una zona vicina a Birmingham dove sono cresciuti Plant e Bonham.
Un rock, in perfetto stile Led Zeppelin, chiude questo capolavoro, “Fisicol Grafiti” (mi raccomando si pronuncia così, non “faisicol” e con la t un po’ dura). Ma il tema è scottante, perché parla delle “groupies” e dei favori generosamente elargiti alla band. Suvvia, non cominciate a scandalizzarvi. In quei tempi (adesso quel “movimento” si è perso, o ha perso molto della sua poesia e delle sue leggende, e, forse, è meglio così), tutti, ma proprio tutti gli artisti di fama avevano le loro groupies, anche se nessuno è arrivato allo squalo nella vasca da bagno di Bonham.
«Beh, io sono io, non ho perso la mia innocenza, ma sono sempre pronto a fare finta che non ce l’ho. Sì, in un certo senso, è una vergogna. Un peccato vedere queste giovani, ancora dei pulcini, gettare via le loro vite cercando di competere con il turbinio che c’era prima di loro. È davvero un peccato. Quando si ascolta “Sick Again”, le parole raccontano il mio dispiacere per le ragazze: – Clutchin pages from your teenage dream in the lobby of the Hotel Paradise/Through the circus of the L.A. Queen how fast you learn the downhill slide” (Robert Plant, Cameron Crowe interviews Led Zeppelin, Rolling Stone Magazine 1975).
Robert Plant si riferisce alle groupies del loro tour negli Stati Uniti del 1973, in particolare a quelle di Los Angeles (L.A. Queens) tutte teenager, la cui “comandante” aveva solo 15 anni. Il senso della canzone è (devo essere cauto perché su internet non esiste mai la fascia protetta) che la presenza volontaria delle groupies doveva servire soprattutto come una sorta di scambio. Rilassatezza per le star, notorietà per la speciali “badanti” di turno. Con la maturità che le accompagnava. Nel 1973 gli Zeppelin, e non solo, si trovarono di fronte all’assalto di adolescenti con l’affamata frenetica fretta di aggiungere solo uno step in più al loro astruso sogno. Proprio come fosse un selfie ai tempi nostri. E non era colpa solo delle ragazzine, ma anche e soprattutto delle star che non le hanno mai scansate. Quarant’anni fa, come adesso.
“Sick Again” fu suonata dal vivo, come secondo brano in scaletta, nei tour dei Led Zeppelin del 1975 e 1977.
Mi sono imbattuto in un file. È partito da sé, mentre scrivevo, subito dopo “Sick Again”. Non ho ancora capito se è un’abile montaggio, oppure si potrà trovare in una qualche versione deluxe della remasterizazione di “Physical Graffiti”, ma se avete un’ora e ventuno minuti di tempo disponibile, ascoltatelo. Oppure sappiate che, dopo cinque minuti e ventidue secondi, inizia “Kashmir” con lo scheletro portante creato dalla chitarra di Page e la batteria di Bonham. A meno che non sia un fake
Con la consapevolezza, a prescindere, che il dirigibile non volerà mai più così in alto.
– continua –