“L’operetta burlesca” di Emma Dante non è un’opera che insinui nello spettatore struggenti suggestioni. Non si può parlare, come per esempio nelle Sorelle Macaluso, di messaggio più o meno criptico, qui il messaggio è certamente diretto, spiazzante, che colpisce forte ma non a pugno nudo. Non ha la potenza drammaturgica che troviamo in Pau Miro o in Annibale Ruccello ne “Le cinque rose di Jennifer” dove la sofferenza del vivere, il dramma della solitudine compie il suo ciclo con il suicidio. Emma usa una scrittura leggera di immediata comprensione in un unicum di frustrazione e contenuta ribellione. Una malinconica via crucis. Sia nelle scene, nei costumi, nel trucco, nelle musiche (al di là delle canzoni), nella recitazione Emma si rifà agli stilemi dell’espressionismo. Attraverso la condizione esistenziale del giovane, l’autrice riesce a veicolare il tema del rifiuto del diverso, dell’omosessuale, della rivendicazione di un diritto alla felicità che prescinde dalle inclinazioni sessuali e tutto sull’onda non della tragedia, ma dell’ironia. Riesce così a sequestrare l’attenzione del pubblico con una giusta dose di emozione di testa e di controllata indignazione.
Il ricorso a linguaggi teatrali diversi (dramma, balletto, varietà, burlesque) è assolutamente straordinario. La musicalità della parola, le pause e gli accenti e la gestualità hanno permesso di superare alcune difficoltà di comprensione letterale del testo, la parola, cioè, risulta ancillare al linguaggio del corpo, al suono e ai toni della voce, ai gesti simbolici degli attori in un tourbillon di boa di struzzo, paillettes, strass, ventagli e lustrini. È una commedia tragicomica in cui ironia e comicità intelligente veicolano col sorriso gli spettatori nell’arido deserto della solitudine. Alla fine infatti non ci sono lacrime, gli applausi non hanno carattere liberatorio, sono sinceri e riconoscenti.
La storia
La scena si apre con una lunga teoria di scarpe femminili allineate a filo della ribalta e, sullo sfondo bambole gonfiabili con chiaro riferimento sessuale che si muovono facendo da contrappunto all’azione scenica. Pietro, ragazzo maturo vive in famiglia e per imposizione del padre padrone lavora in una stazione di servizio in un paese della provincia di Napoli. Ma nella sua camera si veste da donna e balla su vertiginosi tacchi rossi perché Pietro è donna. “Una donna che cresce nel corpo di un uomo – precisa Emma Dante – si sente in un corpo sbagliato, ma è costretto a starci dentro“. Sogna di farsi una famiglia con l’uomo di cui è innamorato, ma il rapporto nasce e tristemente finisce.
L’operetta è “burlesca” solo nel titolo – dice Emma Dante – il lieto fine resta impossibile: Ho un rapporto brutto con il lieto fine, ma ne ho uno buono con la speranza. I miei finali sono tristi, ma sospesi, perché la sospensione ha a che fare con la speranza con l’idea che il lieto fine sia fuori dal teatro”.
La vicenda è ambientata a Napoli, ma la famiglia è di origine siciliana. E il primo scontro (scenico) si gioca proprio sulla lingua, fra la cadenza napoletana di Carmine Maringola e il siciliano duro di Francesco Guida che, con intelligente espediente registico, fa la parte del padre violento e della madre opportunista senza bisogno di cambiar d’abito. “Sono due “madrelingue diverse – dice Emma Dante – perché più che il dialetto cerco la lingua di provenienza, quella della radice, che fa essere più sinceri”.
Una grandissima (bulimica) Emma Dante è autrice del testo, cura la regia, disegna le scene e i costumi. Le belle coreografie sono di Davide Celona, il disegno luci di Cristian Zucaro. Bravissimi Carmine Maringola nella parte di Pietro, Francesco Guida in quella del padre/madre, Roberto Galbo ottimo attore/danzatore, molto brava Viola Carinci (la parte femminile di Pietro) che si esibisce in danze sensuali ma prive di volgarità.