“Der Park” di Botho Strauss

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fotodal “Sogno” di Shakespeare

traduzione di Roberto Menin

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Botho Strauss, uno dei grandi innovatori del teatro tedesco dagli anni Settanta in poi, capace di far convivere nei suoi testi sociologia e mito, banalità e raffinata riflessione, linguaggio dotto e gergo punk prende come pretesto la trama del “Sogno di una notte di mezz’estate” di Shakespeare per raccontare la storia ambientata in un parco di Berlino di personaggi borderline (prostitute, tossici, giovani punk) specchio fedele del nostro mondo deprivato di ogni forma di etica dove tutto è mercificato: l’amore, il sesso, l’arte, insomma la vita. Un universo di individui isolati, senza radici, in continua emergenza comportamentale ed esistenziale, privi di identità e incapaci di sentimenti. Un’opera come spiega Peter Stein nelle note di regia”il degenerare della sessualità a pura merce, o a puro gioco fisico di forza, la ricaduta in comportamenti che direi primitivi, come il razzismo e l’utilizzo della religione come arma politica; la perdita di memoria, il disorientamento delle nuove generazioni, la paura della crisi e della propria fine, la commercializzazione dell’arte e tante altre cose che sono esattamente il mondo di oggi” La violenza è declinata in forme che vanno oltre quella erotica, c’è in tutta l’opera una commistione di mondi quello reale e quello fantastico che si confondono in un contesto di follia e di caos. Un testo amaro, grottesco con tangenze comiche.

Titania e Oberon (il re e la regina delle fate) scendono fra gli uomini per risvegliarne i sentimenti e le pulsione erotiche messe in sonno dal progresso tecnologico, dall’arrivismo, dalla ricerca ossessiva del successo, dal consumismo compulsivo. Ma il tentativo di riportare i valori fondanti in questa fauna umana fallisce e loro stessi ne rimangono vittime. Il sipario si chiude con Oberon vecchio, grigio senza espressione che vaga sulla scena e un’anziana Titania che festeggia le nozze d’argento con solo cinque dei numerosi invitati.

Questo “Sogno” di Botho Strauss, è uno spettacolo che mi confonde, mi sconcerta, insomma non mi emoziona. Sarà per la lunghezza (4 ore e mezza), sarà per la difficoltà di capire la logica, la consecutio degli avvenimenti, sarà per l’affastellarsi di situazioni, sarà (forse questo è il punto) dal venir meno dell’attenzione per la scarsa percettibilità delle voci e dalla scarsa acustica del teatro. Sarà, ma questo è il risultato di uno spettacolo intrigante, pletorico, discontinuo. Bellissime le scenografie magiche di Ferdinand Woegerbauer, che hanno però il difetto della perfezione. Una perfezione eccessiva nel contesto drammaturgico dell’opera. Sono scene ricche di invenzioni che ci ricordano, e ben si adattano, ad un’opera lirica (di cui Stein è sommo regista). A mio avviso invece di questi perfetti tableaux (per intenderci alla Annigoni o Sciltian) sarebbe stata più funzionale una scenografia che riproducesse la disperazione espressionistica tedesca.

Ottimi gli attori. Paolo Graziosi è il debole metamorfico arrendevole Oberon. Stupenda l’interpretazione (recitazione e gestualità) di Maddalena Crippa nelle versioni di divinità insensibile ai suggerimenti moralistici di Oberon, focosa infoiata Pasifee, femmina seducente che dall’alto di una piattaforma cerca invano di svegliare la pulsione erotica di tre (tre come espressione del tutto) giovani uomini.

Ricordiamo ancora l’intenso Martino D’Amico nelle vesti di Cyprian (il Puck del bardo) che non è più un elfo ma uno scultore di amuleti dal potere di scatenare pulsioni sessuali e che finirà ucciso dall’uomo che amava, e ancora Arianna Di Stefano nella parte della ragazza punk con i suoi tre compagni, Pia Lanciotti, Graziano Piazza e Gianluigi Fogacci e Silvia Pernarella nelle vesti delle due coppie mal assortite, Fabio Sartor (Erstling) Alessandro Averone, Martin Chishimba, e sette altri ottimi attori. Belli i costumi di Annamaria Heinreich, determinante il disegno luci di Joachim Barth e le musiche originali di Massimo Gagliardi.

Gli applausi hanno una duplice valenza, sono sinceri nei confronti dei bravissimi interpreti, hanno carattere liberatorio nei confronti dell’opera in sé.