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La bottega del caffè

fotoCon Vittorio Viviani, Manuele Morgese, Ruben Rigillo, Carla Ferraro, Maria Angela Robustelli, Ezio Budini, Giulia Rupi, Alessandro Scaretti

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Nel 1748 il capocomico Girolamo Medebach propone a Carlo Goldoni di diventare autore stabile del Sant’Angelo, uno dei maggiori teatri della Venezia del XVIII secolo. È qui che egli opera la celebre “riforma” del teatro, distaccandosi dalle convenzioni della Commedia dell’Arte – tra le quali l’improvvisazione – e cercando sul palco una realtà naturale. La bottega del caffè fa parte del gruppo di sedici commedie che egli scrive dopo il fiasco de L’erede fortunata, presentata nella stagione appena precedente. L’accordo gliene richiedeva la metà, ma Goldoni impone la sua innovazione, facendo cambiare idea al pubblico e alla gente del mestiere.

Dopo il successo della prima rappresentazione a Mantova, La bottega del caffè sarà replicata dodici volte a Venezia, città natale, com’è noto, dell’autore, che però avrà d’ora in poi un rapporto subalterno con la Serenissima, distaccandosene “per descrivere – nota il regista Maurizio Scaparro, che ne ha curato l’adattamento – una Venezia che già allora rischiava di cedere alle tentazioni di una progressiva mercificazione delle sue bellezze”. Ma Goldoni si distacca anche dalle sue radici artistiche, come confessa egli stesso: “quando composi da prima la presente Commedia, lo feci col Brighella e coll’Arlecchino […] dandola io alle stampe, ho creduto meglio servire il Pubblico, rendendola più universale”.

La bottega del caffè è lavoro esemplare del progetto drammaturgico riformatore di Goldoni, che, sfruttando la straordinaria esperienza di caratterizzazione tipica della Commedia dell’Arte, svestita però delle sue maschere, apre il sipario su una quotidianità universale che non esce da Venezia, ma da lì si allarga per abbracciare tutta la società italiana settecentesca. La commedia parla in toscano e racconta una giornata di Carnevale a Venezia. Non la Venezia di piazza San Marco, però, ma quella universale di una piazzetta qualunque, tra una bottega di caffè, una bisca e un barbiere, intorno ai quali orbitano i personaggi, che Goldoni descrive così: “I miei caratteri sono umani, sono verosimili, e forse veri, ma io li traggo dalla turba universale degli uomini, e vuole il caso che alcuno in essi si riconosca. Quando ciò accade, non è mia colpa che il carattere tristo a quel vizioso somigli; ma colpa è del vizioso, che dal carattere ch’io dipingo, trovasi per sua sventura attaccato”.

C’è Ridolfo, neo-Brighella di professione bottegaio. C’è Trappola, novello Arlecchino e giovane garzone di bottega. C’è Don Marzio, benestante aristocratico che impiega il suo tempo tra gli affari altrui, generoso quando conviene, fidato finché non è tentato dal pettegolezzo. C’è il signor Eugenio che non sa resistere al gioco, c’è sua moglie Vittoria che non sa resistere a lui, c’è il proprietario senza scrupoli della casa da gioco, c’è la ammaliante ballerina che si spazzola i capelli sul balcone del Conte Leandro, c’è quest’ultimo che nasconde un segreto, c’è una pellegrina portata a Venezia dalla disperazione. C’è un mondo, nella piazzetta, che è più un ritratto che un’invenzione scenica.

Ci sono le musiche impalpabili di Nicola Piovani e le meravigliose scene di Lorenzo Cutùli a dare un valore aggiunto a una commedia che disintegra i limiti del tempo, raccontando il primo Carnevale del teatro che lascia le maschere della Commedia dell’Arte per indossare quelle dell’uomo. C’è Goldoni e sembra Pirandello. C’è Venezia e sembra Firenze, Napoli, Roma… C’è un palcoscenico e sembra di stare fuori casa, con la seggiola di legno sul portone, a guardare che succede.

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