di August Strindberg
traduzione Enrico Groppali
adattamento Cristián Plana, Alessandra Guerzoni
regia Cristián Plana
con Giovanna Di Rauso (Giulia), Massimiliano Gallo (Giovanni), Autilia Ranieri (Cristina)
e con Mario Autore, Barbara Bonaccorsi, Cinzia Cordella, Fabiana Fazio, Ettore Nigro, Marco Palumbo, Marianna Pastore, Carlo Roselli spazio scenico, costumi e aiuto regia Angela Gaviraghi
assistente alle scene e direttore di scena Marco Di Napoli
assistente costumi Alessandra Gaudioso
elettricisti Antonio Gatto, Carmine Pierri
macchinista Gigi Sabatino
fonico Paolo Vitale
realizzazione scene F.lli Giustiniani
materiale elettrico e fonico Emmedue
realizzazione costumi tradizionali Quaredo confezioni s.r.l.
collaborazione organizzativa Aldo Miguel Grompone d.i.
si ringrazia per la collaborazione Il Cascione produzione Teatro Stabile di Napoli, Fundacion Festival Santiago a Mil (Cile)
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Quando August Strindberg invitò Emile Zola alla lettura del suo lavoro “Il padre”, lo scrittore francese gli fece notare che mancava ancora una certa completezza affinché i suoi drammi potessero essere intesi come “naturalisti”.
Ci riuscì di più con “La signorina Julia”, scritto nel 1888 e che risulta essere il suo capolavoro. Il dramma ha tutti i crismi per essere definito degnamente tragedia naturalista in quanto finalmente ritroviamo in essa quello “stato civile completo dei personaggi” così tanto caldamente suggeritogli dal padre del naturalismo francese.
Non solo. Nel dramma di Julia è insito quel sapore di tragedia che risiede nella crudele irreversibilità degli eventi, ma anche nel sangue fatale che, come nei tragici greci per eccellenza, da madre in figlia trasporta orribili “doni” relegandole al medesimo destino. E Julia, venticinquenne contessa, ne è una vittima ed al contempo artefice, esattamente quanto lo potrebbe essere Fedra. Nata da una libera relazione fra un conte ed una donna plebea, “contro il desiderio di mia madre”, la sua natura è ancorata ad una genetica dicotomia, divisa fra un’educazione quasi da amazzone, volta al disprezzo degli uomini e ad un turbolento desiderio erotico che, come il padre, viene rivolto a individui di ceti più bassi, costringendola a laceranti compromessi; “li odio tutti poi quando mi sento debole faccio qualche eccezione”.
Questa introduzione è utile per poter fare un’analisi sulla regia ed allestimento di Cristiàn Plana, regista cileno, che dirige “La signorina Gulia” con una compagnia tutta italiana: Massimiliano Gallo (Jean/Giovanni), Giovanna Di Rauso (Giulia) e Autilia Ranieri (Kristin/Cristina).
La prima scelta di Plana è quella di ridurre lo spazio scenico. Niente grande cucina del castello, originario spazio realistico, ma un vano cubico con pareti color ruggine, una scatola ermetica al centro della quale, sulla parete, c’è una lunga scala, evidente simbolo della verticalità sociale cinicamente rovesciata nella vicenda. Un intro heavy metal coadiuvato da 12 neon posti in alto, aggredisce i nostri occhi e le nostre orecchie ed ex abrupto s’interrompe con uno stuolo di servi che attorniano i corpi dei due protagonisti sui quali lampeggiano le luci con la loro “metallica” violenza.
Tutta la prima parte del testo di Strindberg che prevede il dialogo fra Jean e Kristin (qui chiamati in forma italianizzata) è stato tagliato, a vantaggio di una partitura totalmente incentrata sulla relazione fra il servo e la contessa, ricca di contenuti e di sottotesti, e che apre in media res la recita evidenziando già dal primo istante la carica seduttiva che Giulia vuol esercitare verso il suo subalterno. Questa riduzione non sarebbe malvagia se, per l’appunto, si mantenesse viva la complessità della protagonista, così modernamente frammentaria e difficilmente classificabile. Plana, invece, immagina la venticinquenne contessina in shorts di jeans e in stivaletti rossi con una camiciola bianca e provocante; fa recitare alla Di Rauso in maniera quasi monocorde o afasica, rimandando in sala l’immagine di una ragazzina viziata ed erotomane, scevra di quel cinico appeal che si rimarca nel testo originario. Forse il tipo di recitazione vuol riflettere ciò che lo stesso Giovanni (Jean), riferendosi a chi più in alto nella scala sociale, chiama “persone senz’anima”? Fatto sta che subito si procede all’atto della seduzione, cinicamente emblematico (è un rapporto anale eseguito mentre Giulia è appoggiata alla scala) ed accompagnato da un rombo che fa tremare l’intera impalcatura. Da qui in poi il dialogo procede rispettando il testo originario e riprendendo acutamente evidenti simbolismi presenti al suo interno; il verbo ubbidire ad esempio, disseminato nella tragedia, diviene progressiva e vana invocazione che Giulia fa a Giovanni, inutile e controproducente contro l’ormai definitiva “caduta” causata da un desiderio “di quello di chi scende verso chi sale”. C’è molto di più dell’eros nella vicenda; in essa quest’ultimo è atto di sovvertimento sociale che – a ben guardare – costringe i due protagonisti ad un inevitabile status quo che li inchioda alla natura che l’uno riflette all’altro; “un servo sempre un servo, una puttana sempre una puttana”.
La scala sociale, dunque, sovvertita, non prescinde da un atto “contro natura” nel quale orribilmente si resta impantanati. La Giulia di Plana è spesso in posizione supina e stesa a terra, irrisoria prospettiva che fa del suo interlocutore, avvezzo per classe sociale a vedere le cose dal basso, un arrampicatore sul corpo e sull’anima di lei sulla quale crudelmente infierisce, e diviene chiara allusione all’abbassamento sociale e psicologico, concetto sul quale s’insiste nel testo.
C’è poi Cristina che Plana ha deciso di introdurre prima dell’epilogo; non c’è nessun brio, nessuna popolare schiettezza in lei, al contrario un’algida donna in abiti scuri in procinto di andare alla messa di San Giovanni Battista, il cui aspetto, simbolo di un ipocrita ed ottuso cattolicesimo, sembra sottolineare in modo alquanto manicheo e frettoloso la contrapposizione con Giulia. La serva Cristina esordisce recitando la parte che le spettava all’inizio della tragedia: “Mi ha ordinato di cucinare per Diana perché è scappata con un randagio”. Plana le fa dire questa frase posticipandola verso la fine, quando Giovanni sgozza l’uccellino di Giulia, imponendo agli spettatori una doppia metafora animale che insieme insistono sulla natura e sul destino della contessa. Ella riappare in abito rosa corto e stretto, in sopraelevati tacchi che danno l’impressione di essere troppo alta e sproporzionata rispetto alla porta del vano. Ha qualcosa di magico la sua fine, l’allusione all’ipnotizzatore ed alla sua scopa in qualche modo ne sublima la crudeltà che non basta a comprendere la linea registica ed interpretativa adoperata dal cileno.
Non è condivisibile l’approccio con la quale si mette in scena l’opera, la modalità, vale a dire, freddamente “chimica” con cui Plana ingloba i personaggi in questo claustrofobico vano che ci appare un deformante verso al naturalismo ottocentesco. Il crudo e materiale rapporto fra i due è rappresentato attraverso una recitazione a tratti catatonica, a tratti scialba che stenta a destare un relativo interesse. Una riduzione alquanto noiosa a scapito di una complessità femminile che arreca nella sua identità psicologica e sociale un germe tragico, e quindi un conflitto (l’escamotage della lettera che Julia consegna a Jean nella quale racconta di sé ci appare un frettoloso surrogato di una lettura interiore). Inoltre, la Julia di Plana – nei suoi atti, nella recitazione oltre che nei costumi – è assimilabile ad un prosaico stereotipo dei nostri tempo che sottrae al pubblico la possibilità di riconoscere in Strindberg un certo spessore tragico ed una sensibilità in quello sguardo naturalista, meticoloso ed essenziale, ereditata in gran parte da vicissitudini biografiche.