di Alexei Kaye Campbell
Traduzione: Monica Capuani
Personaggi e interpreti:
Philip: Luca Zingaretti
Sylvia: Valeria Milillo
Oliver: Riccardo Bocci
L’uomo; Peter; il dottore: Alex Cendron
Regia: Luca Zingaretti
Scene: Andrè Benaim
Costumi: Chiara Ferrantini
Luci: Pasquale Mari
Musiche: Arturo Annecchino
Produzione: Zocotoco srl
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The Pride, primo lavoro di Alexei Kaye Campbell datato 2008, sviluppa due storie parallele, una sul limitare degli anni Cinquanta e una al giorno d’oggi. Stessi attori, stessi protagonisti, ma contesti, linguaggi e situazioni differenti. Due uomini e una donna, orgoglio e prese di coscienza, partenze e ritorni. Il tema? L’omosessualità. Peccato che il testo sia oggettivamente brutto, banale e privo d’originalità, non per colpa della traduzione apportata da Monica Capuani, ma proprio della penna di Campbell. La trama scorre lenta, sommersa a tratti da un vaniloquio inconcludente, mentre l’ironia sfrutta abbondanti luoghi comuni – Oliver 2015 drama queen petulante e possessiva, l’amica fag hag (ovvero “frequentatrice di preferenza o esclusivamente uomini omosessuali o bisessuali”), il forzato coming out, l’HIV, le dimensioni del pene e amenità varie che forse alcuni etero e non reputano roba vecchia. Così facendo, i personaggi si riducono a pure macchiette, perse ad esempio a discutere se valga o meno la pena praticare del sesso orale a sconosciuti. Campbell, assecondando una certa filosofia fallocentrica professata da molti nel mondo gay, farcisce il tutto con una psicologia spiccia che riduce l’omosessualità a mera fisicità, abolendo qualsivoglia traccia di veri sentimenti. Questo fa male alla causa, perché c’è sempre più bisogno di spiegare come l’amore tra persone dello stesso sesso sia altro e non solo copula.
Alla luce di ciò, lo sguardo di Luca Zingaretti, invece di fermarsi nei sobborghi della periferia londinese, avrebbe potuto raggiungere vette elevate scegliendo, che so, un Fassbinder, un Genet o un Tennessee Williams, drammaturghi d’indiscusso talento ed eleganza. A livello registico, Zingaretti sceglie di non mettere in contatto i personaggi, e quei pochi gesti, necessari per evitare che la pièce diventi un oratorio, risultano goffi, mentre per il resto si affida ai suoi tre compagni di brigata. Rispettano le volontà dell’autore le scene di Andrè Benaim, con un quadrato a comparsa dall’alto a distinguere il passaggio tra le due epoche storiche e arredi senza tempo. Scialbi i costumi di Chiara Ferrantini, malinconici nelle loro tinte smorte, al risparmio le musiche di Arturo Annecchino. Non sbaglia mai un colpo Pasquale Mari che con il disegno luci cerca di sopperire allo scarso appeal dello spettacolo.
Se tre anni fa con La torre d’avorio Zingaretti aveva dimostrato notevoli capacità d’immedesimazione e confezionato un ottimo prodotto, complice anche il bravo Peppino Mazzotta, qui la recitazione è moscia, impacciata perché costretta da un ruolo poco sentito. Alla prima recita, complice l’emozione o l’umore non si sa, l’attore è inciampato su alcune battute e ha dimostrato una fastidiosa meccanicità negli assieme. Valeria Milillo, volto noto in tv per Caterina e le sue figlie, Distretto di polizia, Il peccato e la vergogna, sembra l’unica propensa a dispensare spessore al testo fumoso, sebbene l’impresa l’affatichi più di quanto non lo sembri di suo, causa l’inconfondibile tono perennemente sospiroso. Riccardo Bocci, lanciato da Albertazzi nel 2003, si salva per la voce corposa e maschia, cadendo però in una recitazione stereotipata. Ad Alex Cendron il compito di calarsi nei panni di tre personaggi quali il nazi-prostituto, che non poteva non essere effemminato, il direttore di testata, etero curioso, e lo psichiatra, freddo dicitore d’un’abominevole terapia riparativa.
Teatro gremito per la prima, ma applausi di misura.