È una sfida.
Quella che accolgono Guglielmo Ferro ed Enrico Guarneri, ma anche quella del protagonista del romanzo.
Mastro don Gesualdo, un titolo celebre, un testo che ha fatto la storia della letteratura, che ha portato innovazione nel panorama italiano eleggendo a protagonista un uomo qualunque. Chi, come me, si è lasciato stregare, ancora studente, dalla prosa “popolare” così coinvolgente, espressiva ed emozionante di Verga, non può non accostarsi alla riproduzione teatrale di un classico che con cautela; con la perplessità che la grandezza della penna dello scrittore non possa essere riprodotta facilmente e fedelmente.
E infatti non è semplice. Ma nel “Mastro don Gesualdo” portato in scena da Enrico Guarneri avviene qualcosa di speciale. Ci si rende subito conto che le barriere issate, anche se involontariamente, crollano, si sfaldano dopo pochi minuti grazie ad una brillante recitazione. L’attore calza con impressionante disinvoltura i panni del protagonista del romanzo, caratterizzandolo in ogni fase della sua esistenza: gli dà voce, gli dà cuore, gli dà vita. Con un linguaggio preziosamente “sporcato” dal dialetto siciliano, con una meravigliosa forza espressiva quasi primitiva, con un tono ora feroce, ora deciso, a volte simile a un grugnito o con un parlare biascicato, riesce a stregare il pubblico scacciando ogni dubbio anche ai più affezionati lettori verghiani che sono in sala reticenti.
La centralità del personaggio è ribadita da una scenografia minimale, che non distrae ma piuttosto completa la sua figura: proiezioni sul fondo del palco, strutture semoventi, pochissimi oggetti di scena per descrivere ora una situazione ora un’altra, per portare il pubblico in una campagna, in una stanza o in una chiesa, per guidarlo attraverso i salti temporali voluti dalla regia di Guglielmo Ferro. La prima scena si apre nella stanza da letto di Mastro don Gesualdo ormai vecchio, ospite in casa della figlia Isabella, stanco e malato. È un uomo che si sente oppresso, solo e infelice, in preda a momenti di sconforto e di rabbia, voglioso soltanto di tornare nel suo paese o di sentirsi amato dalla figlia.
Tutto diventa un ricordo: l’amore di Diodata, i figli avuti con lei e disconosciuti, la sua “arrampicata sociale”, il suo matrimonio combinato per ottenere un titolo nobiliare, le fatiche e i dispiaceri, la speranza, delusa, di sentirsi accettato dalla sua stessa famiglia. La messa in scena di Ferro è fatta da un alternarsi di flashback, di ricordi, di desideri negati, di sofferenze presenti e di leggi severe. Leggi in cui vince chi urla di più, chi ha più soldi, chi sa imporsi in un mondo guidato ed oppresso da uno sfrenato materialismo. È una logica crudele, che spinge ad essere riconosciuti non tanto quanto persone meritevoli ma come padroni di cui avere timore, a cui chiedere favori e a cui sottostare in nome di del Dio denaro. Mastro don Gesualdo, con la sua indole violenta, con la sua caparbietà e con il suo fiuto per gli affari si è guadagnato una posizione di spicco in paese, è riuscito ad accumulare tanta “roba” e a diventare un signore, ma non è mai guardato come tale: resta sempre un escluso, fino alla sua morte. E come un emarginato si sentirà a casa della figlia e del genero, che lo considera un “uomo greve, un primitivo, un animale” nonostante i suoi numerosi sforzi fatti per emergere e guadagnarsi un posto nella società. È marchiato Gesualdo Motta, dalla sua condizione sociale, dai suoi modi fieri e brutali, dalla sua natura. Ed è solo: in scena, quando è in camera, parla tra sé o, il più delle volte, contro una porta chiusa nella speranza che la figlia varchi quella soglia e si segga accanto a lui; le si rivolge gridando dall’interno della stanza, ma non ottiene nulla: tutti gli girano le spalle, parlano senza interpellarlo, lo vivono come un peso perché non nutrono alcun sentimento verso di lui. Un destino che il protagonista della messa in scena porta in luce più volte, quando parla del rapporto con la moglie che gli “gelava l’anima” ogni volta che le si avvicinava, quando ricorda la derisione dei parenti nobili nei suoi confronti, quando invano cerca un contatto con la figlia ma in lei rilegge gli atteggiamenti della madre e finisce per arrendersi dicendo “Isabella è una Trao, non una Motta: ha una corazza sopra il cuore, è figlia dei silenzi di Bianca” oppure “è la razza che si rifiuta. Il pesco non si innesta sull’ulivo”. Non c’è stato mai posto per gli affetti nella vita di Mastro don Gesualdo e non ce n’è nemmeno adesso, alla fine dei suoi giorni, perché l’esperienza e gli anni lo hanno reso un uomo calcolatore, privo di sentimenti, interessato solo a “travagliare”. La messa in scena di Guglielmo Ferro però non si piega banalmente a rileggere il romanzo verghiano e lo arricchisce di un’umanità che l’interpretazione di Enrico Guarneri regala al pubblico. I dialoghi con la serva Diodata, completamente fedele al suo padrone quasi fosse un cane, mostrano un affetto sincero ma quasi selvaggio; la paura di accarezzare la moglie Bianca con le sue mani ruvide e la preoccupazione di essere all’altezza della nobiltà svelano l’insicurezza di un uomo non si sente completamente a proprio agio nella vita che si è costruito; il ripensare ai suoi primi figli con amara nostalgia racconta forse addirittura un velato rimpianto per quando era “un povero diavolo senza una moneta in tasca, ma libero”. Solo alla fine “il cuore di vetro” della figlia sembra disposto a sciogliersi nel calore di un abbraccio, stretto, desiderato, quasi rubato da Mastro don Gesualdo che, finalmente da padre, le chiede “Non ti faccio male, come quando eri piccolina, vero?”.
Quando si ci scontra con personaggi così complessi e celebri è difficile uscirne vittoriosi ma Guglielmo Ferro ha fatto la scelta giusta con Guarneri, che finalmente ricopre un ruolo drammatico e mostra il suo talento, già prontamente riconosciuto dal regista che descrive l’attore come “l’ultimo degli instancabili «attori promiscui», quelli sanguigni, evocativi, che pescano le interpretazioni dalla vita vissuta. Uno che ha l’animo tutto siciliano”.
La sfida è vinta, e a pieno. L’unico rammarico è per i troppi posti vuoti della sala del teatro e per uno spettacolo che meriterebbe molto, molto più favore di pubblico.
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MASTRO DON GESUALDO
di Giovanni Verga
rielaborazione drammaturgica di Micaela Miano
regia di Guglielmo Ferro
con Enrico Guarneri
e con Ileana Rigano, Rosario Minardi, Francesca Ferro, Vincenzo Volo, Rosario Marco Amato, Pietro Barbaro, Giovanna Centamore, Nadia De Luca, Gianni Fontanarosa, Maddalena Longo Chiavaro
produzione Associazione Culturale ABC Produzioni