Torna al Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara “Biennale Donna” giunta quest’anno alla sua XVI edizione. Organizzata da Udi, Unione Donne in Italia di Ferrara e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara la mostra quest’anno (17 aprile – 12 giugno 2016) propone la collettiva “Silencio Vivo. Artiste dell’America Latina” curata da Lola G. Bonora e Silvia Cirelli. Sono state scelte quattro artiste: Anna Maria Maiolino (Brasile, 1942); Teresa Margolles (Messico, 1963); Ana Mendieta (Cuba 1948 – Stati Uniti 1985) e Amalia Pica (Argentina, 1978). Info: www.biennaledonna.it
Ci sono mostre che lasciano tracce, nell’anima, nel pensiero, nel cuore. Questa è una di quelle. Appena si entra si viene subito catalizzati da una serie di fotografie in bianco e nero esposte sul lato destro del padiglione. Una donna ci fissa senza alcun timore – lo sguardo fiero, da guerriera. Ha delle forbici in mano e con queste si mostra in procinto di mutilare il suo viso, tagliandosi la lingua, il naso, accecandosi gli occhi. La sfida è palese: volete che stia zitta? Che non dica quello che vedo? Che smetta di guardare criticamente il vostro comportamento? Volete sopprimermi? D’accordo, lo faccio da sola. Mi censuro da sola. Perché nemmeno senza occhi, senza lingua, senza naso io smetterò mai di esprimere la mia criticità. Basta la mia presenza a farlo. La mia presenza è così forte che posso anche trasformarla in un’assenza. Ci sarà sempre e comunque. La guerriera in questione che inscena un autosacrificio consentito è Anna Maria Maiolino.
Sulla sinistra del Padiglione troviamo Ana Mendieta con fotografie e due video. Alcune foto della serie Volcano (Vulcano), potenza naturale tra le predilette dall’artista. All’interno del vulcano mendieta pone una delle sue Siluetas, una sagoma di donna primordiale bianca. E poi la fa bruciare. Nella sequenza fotografica troviamo la sagoma di donna che brucia dentro al cratere di un piccolo vulcano. Questa sagoma è il corpo dell’artista. È Mendieta. Mendieta che si è fusa con tutta la Natura: il fuoco la terra l’aria la pietra. Mendieta si cerca nella Terra dove trova la sua anima selvaggia. Un’anima così luminosa che brucia, arde. Come vediamo nel video ambientato ad Oaxaca, Messico, e che ci ricorda le nostre tradizioni rurali, quando si brucia la “vecchia” o la “strega”. Evento che ha radici antiche e che sottende sempre un rituale sacrificale. Si sacrifica, si immola (donne o animali) per placare gli Dei, ingraziarseli. O mettere finalmente pace tra gli uomini durante situazioni critiche. Perché il sacrificio calma sempre. Perché l’uomo ha bisogno di vedere scorrere il sangue. Così Mendieta si brucia. Arde nella notte per diventare subito stella. Perché il suo corpo si trova già da un’altra parte, anche se ucciso.
Al piano superiore l’argentina Amalia Pica ha un approccio già più concettuale. La riflessione dell’artista approccia fatti storici, analizza elementi ludici. Lavora sul senso profondo delle azioni, delle relazioni, della comunicazione e sugli oggetti. I tappi per le orecchie realizzati in materiali diversi, evidenziano come ci siano barriere insormontabili nell’ascolto dell’atro. Così come l’installazione che, in una stanza chiusa, collega tanti barattoli tra loro. Così il gioco del telefono realizzato coi barattoli cortocircuita, implode in se stesso.
Sono semplicemente sconvolgenti le due installazioni di Teresa Margolles. Per poeticità, lucidità, realizzazione. Opere incommensurabili. Ci troviamo di fronte due stanze vuote. Nella prima abbiamo “Sonidos de la muerte” Il rumore della morte. Un’installazione sonore che riproduce le registrazioni ambientali registrate nei luoghi in cui è stato trovato il corpo morto di una donna. Margolles riesce in un intento straordinario: parla di morte senza mai esibirla, senza mai mostrarla. Il suo approccio poetico ed evocativo è dirompente. Non lascia via di scampo. E quei suoni apparentemente innocui si tingono di sangue e ci trasformano in testimoni.
Nell’altra stanza l’installazione Aire, un’installazione site specific composta unicamente da due umidificatori riempiti con l’acqua proveniente da obitori di Città del Messico, utilizzata prima dell’autopsia per lavare i cadaveri di persone assassinate.
È qui che si compie il senso profondo della mostra. È qui che il silenzio – della morte violenta – si fa vivo. Assordante.
E ci chiama tutti in causa.