Il giallo per antonomasia che ha venduto più di 110 milioni di copie pubblicato come Dieci piccoli negri, divenuto negli Stati Uniti And Then There Were None (E poi non rimase nessuno) mutuato dall’ultimo verso della filastrocca che fa da leit motiv alla trama, utilizzato anche nell’edizione italiana del 1946, finché nel 1977 diviene Dieci piccoli indiani.
Il successo editoriale di un testo ritenuto il capolavoro letterario della sua autrice, all’undicesima posizione tra i best sellers mondiali, lo ha reso oggetto anche di innumerevoli adattamenti cinematografici.
Il dipanarsi della vicenda è la cartina di tornasole del genio creativo di Agatha Christie che, ispirandosi a una filastrocca americana, sviluppa un plot avvincente fino allo spiazzante epilogo. Nell’adattamento teatrale del 1943, che raggiunse 426 repliche a Broadway, l’autrice rese il finale meno conturbante per il pubblico in sala. Questo allestimento, voluto da Gianluca Ramazzotti e Ricard Reguant, propone per la prima volta il finale del romanzo, in accordo con la Agatha Christie Ltd.
La filastrocca incisa sulla colonna al centro della sala nella villa su uno sperduto isolotto dove sono invitati i dieci ospiti, fa riferimento al più politicamente corretto Dieci soldatini, in un’atmosfera art-déco in bianco e nero con ampie vetrate della scenografia minimalista disegnata da Alessandro Chiti, in cui la tavola imbandita per la cena di benvenuto fuoriesce dalla scalinata. Bianchi e neri anche gli eleganti costumi di Adele Bargilli. Le singole strofe cantate con voce acerba scandiscono l’eliminazione di ciascuna vittima designata, compresa la coppia di domestici, tutti convocati dal fantomatico signor Owen che li accoglie con la voce registrata sul grammofono, svelando i delitti impuniti che hanno commesso e per i quali verranno progressivamente eliminati.
Sbarcati sull’isola da un barcaiolo che ha fatto perdere le tracce, come un misterioso Caronte, la violenta tempesta che flagella l’isola ne impedisce la fuga. La forzata convivenza fa emergere i lati oscuri quando, nel tentativo di discolparsi dalle accuse descrivono gli eventi che li hanno coinvolti e lo stato d’animo che li ha accompagnati e ne rigettando l’assunzione di responsabilità, rivelando la tracotanza di una classe borghese e aristocratica che non esita a far morire o assassinare chi intralcia i propri privilegi. La mancanza di un detective e la consapevolezza che tutti moriranno amplifica la suspense dell’intreccio ‘a camera chiusa’, in un giallo che denuncia l’ipocrisia di una società borghese turpe e ignobile sotto un’apparente rispettabilità sociale e integrità morale.
Lo spagnolo Ricard Reguant dirige un cast di attori di varia provenienza artistica facendoli muovere sulla scena, pur indulgendo in qualche effetto di maniera nella gestualità, in una equilibratissima prospettiva geometrica sottolineata dal variare delle luci di Stefano Lattavo. Interpreti di vaglia veleggiano autorevolmente sulle ali di un progetto delittuoso che da carnefici risoluti li tramuta in fragili vittime: Luciano Virgilio è imponente e autorevole nel ruolo del giudice Wargrave, Mattia Sbragia è lo sbruffone e imbranato poliziotto Blore, Carlo Simoni è il misurato dottor Armstrong, Alarico Salaroli è il volitivo generale McKenzie, Ivana Monti è la tetragona e moralista Emily Brent, Caterina Misasi ha il ruolo dell’eterea Vera Claytorn, Pietro Bontempo è l’esuberante capitano Lombard, Leonardo Sbragia è Antony Marston, Giulia Morgani e Tommaso Minniti sono i domestici Rogers. Man mano tra perplessità, reciproci sospetti, sensi di colpa tenuti a bada, inutili precauzioni e scatti d’ira escono di scena e, in concomitanza, sparisce anche il loro simulacro della statuetta sulla mensola, fino all’angoscioso finale che denuncia un profondo disagio esistenziale.