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Il trovatore partigiano

Andato in scena al Teatro della Fortuna di Fano (PU)

Se Verdi tornasse non darebbe ai registi la facoltà di creare e, se avessi potere, non gliela darei neanche io.

Valentina Carrasco, responsabile di regia (proprio responsabile) e luci, prende spunto da Il Trovatore di Giuseppe Verdi, per narrare l’amore di due giovani partigiani, Manrico e Leonora, durante il fascismo. Manrico dirige il giornale clandestino “La voce della libertà” e Leonora è una sorta di informatore esterno. E gli altri, a dire il vero, non si capisce che ruolo abbiano, a meno che non si chieda alla regista.

Le scene di Giada Abienti e i costumi di Elena Cicorella seguono le direttive registiche.

Quindi c’è la redazione clandestina del giornale, che giganteggia sul fondale, ci sono militari fascisti atti a censurare gli articoli, non manca la proiezione della ormai inflazionata deportazione degli ebrei e del taglio dei capelli, tutti girano con le armi in mano, c’è la bruciatura delle copie del giornale, sono presenti anche le suore figlie della carità di San Vincenzo, dette le cappellone per quel grande copricapo bianco che indossano, atte a servire i pasti ai soldati nel loro convento, che ci rammentano le mense dei poveri.

I fascisti hanno la tipica divisa compreso il fez in testa, i soldati del Conte son travestiti da mendicanti, di taglio maschile gli abiti femminili, c’è un cambio d’abito di Leonora in scena.

Quindi non perdiamoci nella ricerca di un nesso tra quel che è scritto e quel che si vede, sappiamo che i registi oggi hanno bisogno di reinventare, di filosofeggiare, di analizzare la società presente, soprattutto per criticare e per condannare, tutte cose che il cultore d’opera non vuole.

Comunque, gusti a parte, lo spettacolo è ben fatto, coerente, con belle scene d’insieme e atmosfera cupa, colori tetri, luce per lo più proiettata dall’alto.

In un’ambientazione più vicina ai nostri giorni, dunque, ma estranea al libretto di Salvatore Cammarano la musica è fortunatamente quella de Il Trovatore di Giuseppe Verdi. E il cast è buono.

Carlo Malinverno nel ruolo di Ferrando esibisce voce poderosa di basso, di bel colore, duttile ed estesa, ma a volte un po’ berciante (“Abbietta zingara”)

Il difficile ruolo di Leonora è ben sostenuto da Marta Torbidoni. Fin dalla sua prima aria “Tacea la notte placida” il soprano lirico mette in luce un bel corpo vocale, dal colore magnifico, suoni rotondi, acuti sostenuti, perfette scale discendenti, accattivante modo di porgere, e la voce possente si lancia nelle agilità di forza, nei trilli e picchettati dei tratti belcantistici e si piega a sensibili modulazioni nei passi lirici. “D’amor sull’ali rosee” è una lezione di tecnica vocale con suoni morbidi, filati e uso della messa di voce.

Il bel colore vocale del baritono Simone Alberghini ben si adatta al Conte di Luna, che non è un ruolo facile, mi piaceva molto Zancanaro. Alberghini ha una bella gettata di voce, estesa, “Il balen del suo sorriso”, con attacco morbido, è cantata benissimo tutta sul fiato.

Gli zingari, che qui non sono zingari, entrano in scena dentro un rimorchio e con la pagina corale “Vedi! Le fosche notturne spoglie invitano a martellare, lo fanno a voce piena, cantando anche troppo forte, ma qui non c’è l’incudine.

Seduta su un carretto Silvia Beltrami, scenicamente perfetta nel ruolo di Azucena, esibisce voce estesa, sonora, vibrante, dal colore denso, buoni affondi e un bel modo di porgere. In “Stride la vampa” c’è il dramma nella sua voce, mentre uno dietro stampa i giornali. Nel duetto con Manrico le voci sono portate all’estremo anche per emergere dal suono deflagrante dell’orchestra sotto la narrazione della zingara.

Ivan Defabiani è vocalmente un vigoroso e irruento Manrico. Il tenore canta per lo più di forza, ma è in grado di alleggerire il suono nei passi lirici e di padroneggiare il canto nelle pagine belcantistiche. Il timbro è bello e lo squillo per lo più sicuro. Dovrebbe migliorare la gestione del fiato, perché la voce è migliore quando non spinge, mentre quando la tende perde in fermezza (“Ah sì ben mio”). “Di quella pira” è cantata con i dovuti chiaro-scuri, mentre dietro bruciano i libri. (Ma la pira verdiana aveva odore di carne e non di carta). Intenso il duetto finale con Azucena, tutto cantato sul fiato.

Il soprano Susanna Wolff è una delicata Ines, il tenore Alexander Vorona è un buon Ruiz, il basso Davide Filipponi è il vecchio zingaro.

Sebastiano Rolli dirige senza spartito con gesto sciolto e deciso la brava Orchestra Filarmonica Marchigiana, a volte un po’ prorompente.

Il coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, diretto da Giovanni Farina, conferma la sua buona preparazione e la sua professionalità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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