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“Io vidi Moby Dick” al Teatro Alba Radians di Albano Laziale

Adattamento teatrale di Ubaldo Sagripanti - Festival Nazionale di Teatro Amatoriale "Premio Lucio Settimio Severo"

Io vidi Moby DickNell’ambito del Festival Nazionale di Teatro Amatoriale ‘Premio Lucio Settimio Severo’   promosso dall’Assessorato alla Cultura, Turismo e Spettacolo del Comune di Albano Laziale sotto la direzione artistica di Luana M. Petrucci e giunto alla sua IX edizione, domenica 10 febbraio 2019 al Teatro comunale Alba Radians la Compagnia “Piccola Ribalta” di Civitanova Marche ha presentato lo spettacolo ‘Io vidi Moby Dick’, atto unico in tre quadri tratto da un’opera di Ubaldo Sagripanti e ispirato al capolavoro di Herman Melville, ‘Moby Dick; or The Whale’. La regia è di Antonio Sterpi. La scenografia di Luigi Ciucci.

Io vidi Moby DickÈ la storia di un vecchio lupo di mare, il capitano Achab, e del suo equipaggio, della devastante sete di vendetta nei confronti di una balena bianca, Moby Dick, che aveva osato strappargli una gamba durante una delle tante scorribande per mare a bordo di un glorioso bastimento, il Pequod. Dell’inseguimento furioso a quella bestia, Achab avrebbe fatto l’unica ragione di vita, l’ossessione movente della sua tragica fine. Ma è soprattutto una storia che negli abissi marini scruta i fondali occulti dell’uomo, le sue paure millenarie, le sue convenzioni, lo strazio di vivere, l’insopprimibile lotta fra ragione e follia, tra Male e Bene. Il romanzo del puritano Melville è un labirinto di metafore, un capolavoro di introspezione, un grande contenitore mistico di pensieri e considerazioni storico-scientifiche e meditazioni metafisico-religiose. Pone con forza la questione epistemologica, drammaticamente combattuta tra fede e scienza. Moby Dick rappresenta il Leviathan, il Male assoluto presente nell’universo e nell’animo umano, ma anche l’ignoto a cui l’uomo tende senza mai raggiungerlo. E ancora: il geniale Melville evoca in più punti una sottile, paradossale teoria che sovverte le posizioni e fa discendere l’origine del Male dalla contrapposizione tra Ego e Natura, tra l’orgoglio smisurato di Achab e Moby Dick, una creatura marina che non ha parola, priva di ragione, che colpì per puro istinto (come dirà il primo ufficiale Startub al suo superiore), che viene inseguita ed insidiata nell’ambiente che gli appartiene per diritto naturale. Quasi che il Male non esistesse come entità distinta ma innescato dal conflitto di relazione tra esseri. Rimane, in buona sostanza, un’ambiguità di fondo ed è appunto da apparenti contrasti e sfumature indistinte che il romanzo trae quel fascino misterioso e intrigante che alimenta interrogativi e non consente certezze.

Il Pequod (dal nome di una tribù pellerossa sterminata dai coloni inglesi) è la precarietà della condizione umana che naviga tra i flutti degli oceani, è immagine della discontinuità, del distacco da ogni forma di ignavia, dalle rassicuranti certezze, dalle consuetudini che la terraferma preserva. Una delle chiavi di lettura del romanzo risiede appunto nella curiosità smisurata, esaltante e intrepida di conoscenza che deve animare ogni uomo e sola squarcia i veli della mente e può ambire alla verità. La ricerca dell’ignoto è una sfida titanica che favorisce la scienza e il progresso, combatte le malattie, le ingiustizie, le barriere del pregiudizio.

Concepita intorno alla metà del milleottocento, affonda le sue radici in un contesto di straordinari mutamenti politici. La giovane nazione americana è percorsa da un fremito demoniaco di novità e di tensioni sociali che innervano la sua primigenia innocenza, da una sete di espansione che provocherà la guerra con il Messico, la corsa all’oro, e il tema dell’abolizionismo dieci anni dopo scatenerà la guerra di secessione. Su quella nave si assiste ad un coacervo di razze, ci sono uomini appartenenti a etnie e fedi diverse, al di là di ogni barriera religiosa simbolo di comunione, di civiltà avanzata per una democrazia ancora larvale. Questi fatti storici e la sua contrastata fede puritana influenzeranno il racconto di Melville e tutta la produzione letteraria, come la sua poetica. La narrazione è affidata all’unico superstite di quell’estremo, drammatico viaggio.

L’autore riprende la storia laddove Melville l’aveva interrotta e attribuisce a quella testimonianza il valore della memoria intesa come nobile, sublime e disinteressato dono, supremo lascito di verità e conoscenza, patrimonio di struggente bellezza che nutre il ricordo e induce la speranza nelle generazioni che avranno il privilegio di avvalersene. Sarà lui il custode di un’epopea esaltante altrimenti destinata all’oblio. Il sipario si apre sulle note di ‘Randy Dandy Oh’, canto marinaresco (shanty) che intorno alla metà dell’ottocento accompagnava le operazioni della ciurma imbarcata sui velieri americani. Nella scena inziale un vecchio marinaio annuncia di aver raccontato la storia del Pequod al solo in grado di poterla riprodurre, Melville, appunto, l’uomo con il mare dentro e gli occhi giusti a riceverla’. L’adattamento teatrale introduce un artifizio singolare e il narratore, da creatura di Melville, diviene il suo ispiratore, la fonte storica che consentirà la stesura del libro, e vivrà come un esule dopo aver portato a compimento la sua missione.

Io vidi Moby DickSi presenta rinunciando alla propria identità, ogni antroponimo è irrilevante allo scopo. Adotta quindi un nome preso in prestito alla Genesi del Vecchio testamento. ‘Chiamatemi Ishmael’. Ishmael è il figlio di Abramo e della schiava Agar, abbandonati nel deserto per volontà di Sara. Il nome biblico di un vagabondo illustre, dunque, tetragono agli insulti della vita, salvato e infine redento. È la misura dell’uomo, di quell’uomo saggio, della incommensurabile umiltà di un coreuta malinconico e solitario. Dopo il naufragio si è ritirato in un villaggio lontano dall’ oceano. Nessuno gli aveva mai chiesto chi fosse, da dove venisse. Trascorre gli ultimi giorni costruendo modellini di velieri in bottiglia, condannato a rivivere ogni giorno l’ultima corsa per rinascere ancora, e ancora, e provando ad insegnare pazientemente l’immensità del mare alla tenera Mary Ann che non lo ha mai incontrato. Ishmael è un uomo mite, benvoluto da tutti, ha trovato ospitalità e ristoro presso la famiglia dei quella giovane che lo investe di domande con curiosità infantile, con l’innocenza del suo candido stupore. Quella stessa curiosità che lo aveva spinto in gioventù a solcare gli oceani, a spingersi oltre per affrontare l’ignoto. Fino ad inseguire creature gigantesche ed esplorare gli abissi, fino a diventare cacciatore di grandi balene.

Ma quello del Pequod non sarebbe stato un viaggio come tanti e avrebbe avuto il sapore acre dell’odio di un uomo ostinato, rancoroso, mutilato nel corpo e nell’anima da quello stesso essere che voleva uccidere. Non si rassegnava a quella ingiuria dissacrante, al punto da incatenare al suo il destino di uomini valorosi e ignari. Starbuck, Stubb, Flask, Queequeg, e tutti gli altri. Nessuno tornerà vivo, tranne uno, che ogni notte rivivrà in sogno per espiazione il fantasma del capitano Achab. La figura eretta, imponente, simile a una statua di bronzo, mentre sul cassero afferra una sartia scrutando l’orizzonte. Così Ishmael aveva visto per la prima volta, dopo alcuni giorni di navigazione, in una grigia mattina come tante, colui che di lì a poco li avrebbe condannati con il suo giuramento maledetto. Tutti a poppa. Gli ordini impartiti sono perentori. C’è solo una balena da inseguire, la testa bianca , la fronte rugosa, con la mandibola storta e tre fori sulla pinna dritta della coda, molti ferri conficcati nel fianco e il soffio grosso e bianco, candido e ammaliatore come il trascendente che atterrisce. È Moby Dick.

La chiamata a raccolta di Achab è agghiacciante e sa di intimazione; non c’è nulla che occupi quella mente delirante se non il proposito velleitario di cacciare il mostro per ogni mare, oltre il Capo di buona Speranza, oltre Capo Horn, oltre il Maelstrom di Norvegia, oltre ogni limite conosciuto, oltre le fiamme dell’inferno, e di annientarlo fino all’ultimo rampone. Quel patto di sangue scellerato e perverso, univoco e solenne, viene condiviso all’istante, in un tombale silenzio, come macabro rituale. Fu così che Achab si impossessò di loro, entrò nelle viscere di ognuno, plagiandone la volontà senza scampo. L’unica voce dissonante sarà quella del primo ufficiale Starbuck, uomo timorato di Dio, severo e prudente, che conosce il mare e teme la balena perché ne rispetta la natura. Ma il capitano è spinto da ben altre motivazioni: colpire il muro, l’apparenza, la maschera ad ogni costo, senza un senso logico, perché è la sola illusoria realtà con cui possiamo confrontarci, perché l’invisibile fa più paura di ogni labile certezza. Achab sente che in quell’essere c’è una potenza oltraggiosa, una forza imperscrutabile. Poco importa se Moby Dick è solo strumento o l’origine stessa del male. In lei vede ‘la monomaniaca incarnazione di tutte quelle forze malvagie da cui certi uomini profondi si sentono rodere nell’intimo’.

‘Ciò che ho osato io l’ho voluto, ciò che ho voluto io lo farò… Io sono demoniaco. Io sono la pazzia impazzita…e nulla fermerà la mia dritta strada di ferro’. È al culmine del delirio e quel cetaceo è solo un pretesto che avvalora la parte diabolica insita nell’animo umano come nell’Universo. Il capitano tiene in pugno l’equipaggio, ha dominato le loro menti e il solo Starbuck ne sembra consapevole, ma non è in grado di contrastare con il buon senso della ragione quella tirannica follia che li ha trascinati nel vortice degli abissi.

Quella barca, nei pensieri del quacchero Starbuck, è come la vita, con la prua baldanzosa che avanza fra schizzi di spuma, le vele spiegate alla risata del vento e avanza solo per trascinare con sé la follia del nulla e il dolore di quel povero vecchio a poppa. L’albero di maestra è a metà del percorso, tra l’inizio e la fine, in equilibrio tra il nascere e il morire. Il cammino dell’uomo, dall’incosciente incanto dell’infanzia alla maturità meditativa, si svolge all’infinito nel corso dell’esistenza e una volta compiuto, ricomincia di nuovo, riviviamo le fasi della vita e siamo ancora bambini, ragazzi, uomini, alla ricerca di un porto finale che dia tregua alle tribolazioni.

Ma l’uomo è chiamato a credere al di là del dubbio, e nella profondità dell’abisso c’è la risposta che attenua la scepsi e sottende l’opera: è l’atto di fede temerario che scoperchia ogni illusione mondana e sostiene la speranza’. Ogni verità è profonda…lasciate strade affollate…lontano dalle architetture frivole della modernità…Interrogate quel re triste ed orgoglioso… È soltanto dal vostro tetro antenato che scoprirete l’antico segreto. ‘È il testamento lucido di Achab prima che il destino sia adempiuto, orfano di un Dio a cui pure misticamente anela. Nella ricerca di quel Dio umiliato dalla idolatria di riti pagani e da costumi libertini, nella profondità della fede, nella spiritualità del Verbo incomprensibile che sovrasta l’uomo e che solo può salvarlo, risiede la radice biblica del capolavoro di Melville.

‘Era una limpida giornata di un azzurro acciaio. I cieli dell’aria e del mare non si potevano quasi distinguere…’ mentre guizzi d’ali bianche tracciavano l’aria, enormi leviatani, pesci spada e squali vigorosi attraversavano le onde in un apparente contrasto. È l’inizio della fine, e sarà un anticipo di apocalisse. Quello stesso giorno Ishmael guardava ‘gli occhi del mare senza accorgersi di farlo, e l’eternità si affacciava in ogni istante. Certe cose si comprendono solo dopo…’ Gli occhi del mare non li dimentichi più… Che grazia sarebbe andarsene in un giorno così…’ Ma per Achab la grazia era altrove… Era una mattina limpida, quel cielo ammaliatore, l’aria soave sembravano dissipare i cupi pensieri che lo sfinivano e una lacrima di commozione cadde nel mare inondandolo di una ricchezza infinita. Ripercorre in un attimo la sua lunga vita, indurito da quarant’anni di mare, lontano dagli affetti, una moglie bambina, vedova bianca sposata in età matura e un figlio sconosciuto. Una vita di stenti e di rinunce per proseguire una stupida caccia schiumosa di sangue.

È il momento di maggiore intensità dell’opera, la consapevolezza dell’inutilità di una vita spesa male. Il pensiero agli affetti trascurati e abbandonati per una misera sorte. È un raro momento di resipiscenza che quell’uomo selvaggio e vinto da lacerazioni insanabili non può fermarsi a cullare. Non è riuscito a trattenere le inesauribili gioie che la vita ogni giorno gli offriva, le radure erbose, i paesaggi dell’anima, la fresca rugiada, le calme benedette, né a conservarne la memoria, impedendo così la conversione del cuore. L’invocazione disperata all’onnipotente è la genuflessione del vecchio peccatore in punto di morte a cui non è più concesso il tempo del riscatto e può solo implorare il perdono. Una elegia di rara suggestione. La compassione di Starbuck per il suo capitano che si stringe a lui e poi l’estremo tentativo di impedire il funesto epilogo, prima dell’ultimo impotente grido di dolore. ‘Chi è quest’essere imperscrutabile signore ultraterreno sconosciuto che mi comanda, questo tiranno senza nome, che mi costringe senza rimorso, contro ogni amore, contro ogni desiderio naturale, e mi tormenta spingendomi verso ciò che davvero la natura del mio cuore non ha mai osato neanche immaginare? Sono io? È Dio?…’ Achab è ormai definitivamente soggiogato dalle proprie ossessioni e volutamente vi soccombe.

Io vidi Moby DickAl terzo giorno di caccia le nubi sottovento annunciano un rovescio e Achab avverte la fine imminente, come un’onda che sta per infrangersi. L’avvistamento e l’attacco finale, conclusivo. La nave è spazzata via dalla furia di Moby Dick. Tutti in fondo al mare tranne Ishmael. Dopo un giorno e una notte alla deriva, viene salvato da una vela che lo raccoglie. La notizia alle vedove e agli orfani. Da allora, non ha più visto il mare. Dopo aver trasferito la storia a Melville facilitandogli il compito, Ishmael, novello Giona risalito dall’abisso, aggrappato alla bara salvagente di Queequeg, salvato dalle onde per predicare la verità, può anche chiudere la sua vita terrena perché ormai le ha dato finalmente un senso liberandosi di un peso troppo grande. È giunta l’ora per il narratore di rientrare nella storia, di ritrovare i compagni di sventura e l’incontro con il traghettatore Starbuck predispone al commiato. Non riuscirà ad esaudire l’ultimo desiderio terreno, incontrare per l’ultima volta gli occhi del mare, ma l’anima di Starbuck chiude per l’ultima volta i suoi di occhi, lo isserà a bordo dove ritroverà Achab per salpare ancora insieme e veleggiare per sempre tra mari e cieli infiniti.

Sulle note di ‘Lowlans Theme from MobY Dyck’ si chiude il dramma.

Molto bello l’adattamento di Ubaldo Sagripanti. Credo fermamente che nessuno più di un medico, ancor più se psichiatra, possa avere la sensibilità artistica, oltreché professionale, per descrivere una storia articolata in forme tanto complesse. Il lavoro di regia di Antonio Sterpi, che si avvale di contributi filmati, è sicuramente interessante e di grande efficacia. Alcuni aggiustamenti renderebbero ancor più teatrale e fluida la trama. È comunque inconsueto che una compagnia definita amatoriale sia stata in grado di realizzare un lavoro tanto accurato, di grande potenza evocativa, di altissimo pregio artistico. L’amore per il mare ha senza dubbio assecondato la naturale immedesimazione nei rispettivi personaggi di questo valente manipolo di naviganti dalle qualità attoriali sorprendenti. Tutti bravi quindi gli interpreti. Antonio Sterpi è il capitano Achab. Dotato di formidabile presenza scenica, magnetismo e personalità radiante, esibisce una recitazione intensa, vibrante, senza alcun imbarazzo, da attore di livello assoluto. Luigi Ciucci è il predestinato Hismael. Il suo personaggio assume una funzione metateatrale di grande suggestione. È il narratore garbato e scrupoloso, infonde leggerezza ed equilibrio al racconto. Attento e puntuale nel modulare toni e contrasti, compone i dissidi, asseconda le fasi del dramma in un crescendo palpitante fino all’epilogo che restituisce il personaggio alla storia. Alessio Orpianesi è il fedele Starbuck. Notevole temperamento. Convincente, deciso e rigoroso nel contrastare Achab con la forza della fede e della ragione. Teresa Belvederi è la deliziosa Mary Ann, misurata, versatile, dimostra un talento innato, non ha incertezza alcuna nonostante la giovane età. La scenografia è appropriata, austera come si conviene, impreziosita dal fasciame dello scafo e dalle vele spiegate del veliero. Buon vento a tutti!

E infine un plauso a questa IX edizione del Festival Nazionale di Teatro Amatoriale ‘Premio Lucio Settimio Severo’ promosso dall’Assessorato alla Cultura, Turismo e Spettacolo del Comune di Albano Laziale con il patrocinio della UILT Nazionale e di FITA Lazio. Una bella iniziativa che fa onore alla cultura del teatro e che sta coinvolgendo un vasto pubblico di appassionati e l’interesse di molti giovani sta a testimoniare la bontà della formula adottata. La direzione artistica è affidata a Luana M. Petrucci e l’organizzazione all’Associazione Teatrale dell’U.V.A., rappresentata dall’attrice Veruska Valeau e dalla regista Ursula Mercuri. Sono sei le compagnie in gara partecipanti, provenienti da tutto il territorio nazionale a partire da domenica 13 Gennaio. Il Festival terminerà il 10 Marzo, serata in cui una giuria tecnica, una giuria giovani e il voto del pubblico decreteranno i vincitori.  

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