All’ingresso del pubblico in sala, il palcoscenico, a sipario già aperto, si offre tuttavia coperto agli occhi degli spettatori. Il materiale di scena è infatti celato da grandi tendaggi scuri – morbidi alla vista – che ricordano quei teli adoperati per proteggere opere di valore, e che tuttavia impediscono di riconoscerne le fattezze.
Questa è solo la prima di una grande costellazione di scelte registiche e drammaturgiche che impreziosiscono il ricco spettacolo concepito dall’artista svizzero Martin Zimmermann, che ha tutte le caratteristiche per essere associato all’idea wagneriana di Gesamtkunstwerk: opera d’arte totale.
Lo spettacolo ha inizio con uno svelamento: una lieve musica di pianoforte sorge nell’oscurità del teatro, e gradualmente una luce illumina i tendaggi che a loro volta magicamente vengono pian piano rimossi. Lo sguardo dello spettatore si apre allora sulla scena, abitata soltanto dall’eccezionale Colin Vallon – sul lato sinistro – all’opera su un maestoso pianoforte a coda aperto. A quest’ultimo si contrappone, sul lato destro e affacciata al pubblico, un’alta parete scura decorata di suggestive cornici tuttavia prive di quadri.
Non si fa attendere Tarek Halaby, che presentandosi come il direttore del museo esposto in scena, esordisce con un plurilinguistico benvenuto agli spettatori che ricorda il celebre Wilkommen nel Cabaret di Bob Fosse.
Halaby invita (in inglese) il pubblico di Ferrara all’apertura del suo museo mentre si trucca alla maniera di un clown. Farnetica, strilla, ride isterico, costruisce il personaggio attraverso un movimento, un ritmo e un’apparenza caricaturali fortissimi nella loro precisione. La stessa osservazione viene sottolineata e confermata all’apparire di altri due personaggi. Dapprima il servo, interpretato da Dimitri Jourde, che con un francese frammentario, ma soprattutto con la propria fisicità coreutica, presenta la stessa goffaggine, simpatia e stupidità dei colleghi di stampo goldoniano. Il secondo, invece, interpretato da Romeu Runa, si mostra come un eccentrico Lazzaro – risorge infatti dal pavimento – dal corpo atletico, flessibile, sensuale e allo stesso tempo ingenuo e ignaro di ciò che lo circonda.
Il terreno su cui si svolge l’intero spettacolo è l’assurdo. Questo si declina nelle situazioni, negli interventi, nelle reazioni di cui i tre interpreti sono protagonisti nella preparazione di questo stravagante evento inaugurale, a cavallo tra finzione e realtà scenica.
Sebbene la locandina – nonché il programma di sala – avesse preparato lo spettatore all’arrivo di tre performers, ci si rende conto immediatamente che la musica e il suo realizzatore saranno a tutti gli effetti un quarto personaggio, senza cui le azioni e interazioni degli altri tre apparirebbero prive di caratterizzazione, forza e significato. Per tutta la durata dello spettacolo la musica suggerisce, accompagna, invita e interrompe l’azione, assumendo un ruolo a tutti gli effetti paritario con l’azione scenica degli interpreti, cadenzandone l’andatura, dettandone il ritmo, accompagnandone la presenza o sottolineandone la caricatura. L’azione performativa degli interpreti e del musicista tuttofare si compenetra e lascia lo spettatore a bocca aperta per la accuratezza, l’esattezza e l’efficacia con cui musica e danza si fondono all’interno della pièce.
Se infatti il linguaggio della musica è estremamente prezioso e comunicativo, quello coreografico non è di minore pregio. I tre interpreti, estremamente diversi fra loro, evidenziano l’individualità dei loro personaggi attraverso qualità di movimento uniche e fortemente caratterizzanti. Esse astraggono dai codici coreutici classici e contemporanei elementi reindirizzati allo scopo di esaltare le specificità dei personaggi attraverso un uso preciso di diverse tecniche, che svuotate della loro valenza storica sono completamente al servizio del personaggio.
La danza, in Eins, Zwei, Drei, prende la forma di un linguaggio dell’assurdo: con il loro movimento, gli interpreti mostrano i sogni, gli incubi, le paure e le gioie vissute dai loro personaggi, all’interno di un contesto tragicomico in cui è impossibile capirsi: «Enough with this nonesense!» griderà a un certo punto il direttore del museo, immerso nell’assurdità di un mondo che non può controllare e della cui indecifrabilità la danza si fa ambasciatrice.
La firma di Zimmermann, tuttavia, si rende visibile nella messa in scena. Questa evidenzia l’attenzione, la cura e la ricchezza proprie delle luci, dei costumi e della scenografia, i cui piani mobili trasfigurano la scena in un mercato d’aste, un jazz bar decadente, una rumorosa sala concerti, uno scialbo red carpet, un sogno surrealista o una scena del crimine apocalittica. La partitura coreografica, unita alla ricchezza della messa in scena e alla qualità dell’interpretazione scenica e musicale, rendono questo spettacolo straordinariamente degno di nota, se non altro per la coerenza con cui il regista, coreografo, artista elvetico ha strutturato e completato il proprio lavoro.
Nella sua maestosità, semplicità e assurdità, Eins, Zwei, Drei riesce magistralmente ad accompagnare lo spettatore in un viaggio che non richiede di essere compreso, bensì percepito e vissuto con i suoi protagonisti, che con comicità e tragicità riescono nelle loro vicissitudini a parlare di potere, sottomissione, oggettificazione, realizzazione personale, solitudine, amicizia, vita e morte. Un’opera d’arte totale, senza dubbio, che con luci, colori, tra le parole di un fado e le note di un pianoforte continua a risuonare nella mente dello spettatore ben oltre il calo del sipario del Teatro Comunale della città estense.
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Co-creato e interpretato da Tarek Halaby, Dimitri Jourde, Romeu Runa, Colin Vallon
Ideazione, regia, coreografia e costumi Martin Zimmermann
Musiche live Colin Vallon
Drammaturgia Sabine Geistlich
Scenografia Martin Zimmermann, Simeon Meier
Sviluppo e coordinamento tecnico Ingo Groher
Suono Andy Neresheimer
Luci Jérôme Bueche
Produzione MZ Atelier