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Intervista a Margherita Tiesi

In scena al Teatro Lumière di Firenze dal 4 al 6 marzo con 'La stanza di Veronica'

Margherita Tiesi è nata a Firenze nel 1993 e, prima che arrivasse il nuovo millennio, aveva già deciso che da grande avrebbe fatto l’attrice. Dopo il diploma di maturità classica al liceo Machiavelli, consegue quello dell’Accademia Teatrale di Firenze, guidata da Pietro Bartolini. Si trasferisce poi a Roma, dove studia all’Accademia Internazionale d’Arte Drammatica del Teatro Quirino – Vittorio Gassman con Alvaro Piccardi, Gigi Proietti e Gabriele Lavia e nel 2017  si diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia – Scuola Nazionale di Cinema. Da quel momento, inizia una densa carriera tra teatro, cinema e televisione: prende parte a diverse fiction, dall’esordio in Rai con Paradiso delle signore fino a Pezzi unici, dove recita a fianco di Sergio Castellitto e Giorgio Panariello per la regia di Cinzia TH Torrini.
Margherita sarà in scena al Teatro Lumière di Firenze con il thriller psicologico La stanza di Veronica di Ira Levin insieme alla Compagnia Giardini dell’Arte.

Margherita, tu hai sei sempre voluto fare l’attrice, fin da piccola. C’è stato qualcosa in particolare che ti ha portato a essere così convinta della tua scelta?Ho iniziato a recitare quando avevo 4 anni, al teatro di Tavarnuzze con l’associazione Vieni te lo racconto, che si occupa di corsi di teatro per bambini e ragazzi. A 7 anni ho fatto il grande annuncio ai miei genitori e ai miei insegnanti: «da grande voglio fare l’attrice». Non mi ricordo dov’ero o cosa stavo facendo, ma mi ricordo benissimo quella sensazione. L’ho sempre vissuta come una vocazione, quella del teatro. Credo profondamente che per fare questo mestiere si debba sentire l’impellenza di comunicare con gli altri e attraverso gli altri: attraverso i personaggi di cui vestiamo i panni e attraverso le parole scritte dagli autori.

Per te lo studio è molto importante, e non soltanto quello accademico. Che cosa bisogna studiare per lavorare in teatro?
Premetto che, secondo me, chi fa l’attore più di chiunque altro ha un superpotere: conoscere sé stesso. Quindi il primo studio che deve fare chi si approccia a questa professione è proprio quello su sé stesso. È importante conoscersi a fondo, sia a livello fisico, sia psicologico ed emotivo, perché noi lavoriamo con tutto questo. Ogni cosa può essere fonte di ispirazione, creazione, lavoro. Un po’ come tutti gli artisti, con la differenza che noi non abbiamo uno strumento da suonare o una tela da dipingere: siamo noi lo strumento, la tela, lo spartito, il marmo. Orazio Costa diceva «il vostro strumento siete voi stessi» e questo è fulcro del nostro mestiere. Soltanto quando abbiamo imparato a gestire i nostri stati d’animo e i nostri modi di reagire possiamo creare un personaggio diverso da noi. E questo vale per tutto, dallo stato d’animo alla camminata.

Quindi si parte dalle differenze, si lavora per contrasto?
Sì, ma ancora più difficile che interpretare qualcuno di diverso da noi è interpretare un personaggio simile a noi stessi. In quel caso è un lavoro da vero certosino: bisogna studiare le piccole differenze, i dettagli, lavorare senza giudizio e con molta umiltà per rendere giustizia alla persona che quel personaggio è o sarebbe stato. Un grande attore è colui che veste i panni altrui con scioltezza, senza mostrare le differenze, grandi o piccole, che separano impersonatore e impersonato, senza lasciare strascichi di sé stessi. Quando vedi Meryl Streep ti inchini, perché è camaleontica, si mette completamente a disposizione del personaggio. A questo serve lo studio: a riprodurre con la maggior precisione possibile anche il più impercettibile tic con la micromimica facciale.

Dopo l’Accademia Teatrale di Firenze sei andata a studiare Roma, dove poi hai iniziato a lavorare. Pensi che fare l’attrice a Firenze sarebbe stato impossibile?
No. Semplicemente io volevo entrare a tutti i costi al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove poi mi sono diplomata. È innegabile che qui a Roma le opportunità siano molte di più, ma ci sono tantissimi attori, tra cui molti amici, che hanno trovato la loro strada a Firenze. L’obiettivo comune deve essere sempre quello di portare l’arte ovunque e comunque.

Teatro, cinema, tv: che cosa cerchi in ognuno di questi palchi?
In teatro percepisco sempre una maggiore sacralità della recitazione, anche nelle prove. Non è un caso che abbia una storia straordinaria fin dall’antichità, legata anche al rito e alla religione. Dal cinema e dalla televisione sono rimasta letteralmente affascinata. Fu Pietro Bartolini, direttore dell’Accademia Teatrale di Firenze, a consigliarmi di provare a entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Non ci avevo mai pensato: ero sicura che il mio mondo sarebbe stato il teatro. Del set, invece, ti innamori subito: è un caos totale per la maggior parte del tempo, finché un Motore. Partito. Azione! ammutolisce tutti improvvisamente, anche se solo per pochi minuti. Ho scoperto un mondo del tutto diverso, dove non c’è il crescendo emotivo che si vive a teatro, ma una continua intermittenza: sul set si ripetono le stesse scene più volte, e non si girano necessariamente nell’ordine in cui poi verranno montate, quindi è una continua altalena. In entrambe le realtà, però, quello che è meraviglioso è il lavoro che c’è prima sulla sceneggiatura, sull’evoluzione del personaggio e su sé stessi, anche se poi viene fuori in modo diverso.

Nella tua esperienza hai lavorato con persone che hanno fatto la storia del teatro e della televisione. Si sono rivelate diverse da come te le aspettavi?
Quando conosco qualcuno con cui collaborerò, cerco sempre di non avere alcuna aspettativa, di basarmi soltanto su quello che scopro ora dopo ora, lavorandoci insieme. Anche perché, nelle relazioni a tu per tu, niente è mai uguale a come viene percepito dal pubblico. La cosa migliore, che si tratti di persone famose o sconosciute, è porsi con umiltà, esprimendo le proprie idee con il massimo rispetto verso tutti, senza imporsi e senza chiusure mentali. Mettersi in ascolto, un po’ come a scuola, ti permette di imparare tantissimo da chiunque, a maggior ragione da persone che hanno una lunga esperienza alle spalle.

Ne La stanza di Veronica interpreterai un personaggio che, da copione è La ragazza: chi è?
È una ragazza degli anni ‘70, libera e piena di vita, aperta a qualsiasi esperienza, per quanto assurda possa essere, come quella che le fanno questi due signori che incontra all’inizio dello spettacolo. Da questa strana proposta si innesca tutta la vicenda, che non voglio anticipare troppo e che porterà il mio personaggio a subire un cambiamento drastico. Non è stato un lavoro facile, perché Ira Levin tocca temi delicati e scava nel profondo, per cui è un’interpretazione che non lascia scampo. Ma in fondo per un’attrice non esiste stato d’animo positivo o negativo, perché è sempre affascinante vestire panni diversi dai propri, osservare dall’interno la diversità.

A proposito di temi delicati e di linguaggi per affrontarli, credi che il teatro e il cinema possano ancora avere un ruolo catartico?
In questo periodo storico abbiamo paura della tragedia, di ciò che non ci strappa almeno un sorriso. Pensiamo di vivere già un momento pieno di difficoltà e ci sembra assurdo cercarle in tv, al cinema o a teatro. In realtà qui sta l’errore: se noi affrontassimo con più serenità la visione di alcune finzioni drammatiche, forse potremmo godere ancora di più di film e spettacoli, proprio grazie a quest’azione catartica di cui sono capaci. Spesso cerchiamo di evadere, di non affrontare un problema, quando invece vedere il dolore, guardarlo negli occhi, potrebbe aiutarci a comprenderlo. Non dico che sia necessario mettere in scena la violenza, anzi non trovo utile mostrare la violenza fine a sé stessa, ma credo che il teatro e il cinema possano davvero aiutarci a fare pace con ciò che consideriamo negativo.

La questione del linguaggio oggi è una delle più dibattute. Per affrontare tematiche delicate come quelle de La stanza di Veronica siete intervenuti sul testo?
Molto poco, in realtà. Il testo si regge perfettamente in piedi nonostante abbia quasi 50 anni. La prima volta che ho letto il copione mi è sembrato di vedere un film. Marco (Lombardi, ndr) ha inserito delle piccole chicche di regia senza alterare la struttura del testo, riuscendo secondo me a dare qualcosa di più al linguaggio, creando ancora più armonia. Il bello di questo lavoro è anche questo: ogni regista mette il suo sguardo, dopodiché sta all’attore capire verso dove è indirizzato e seguirlo.

È il tuo primo spettacolo dopo la pandemia. Che cosa ti aspetti dal palcoscenico?
Naturalmente sono felice di tornare davanti al pubblico, anche se purtroppo indosserà la mascherina e questo mi dispiace molto. A differenza del cinema, il teatro ti permette di percepire il pubblico, di sentirlo respirare, ridere, tossire… Ecco, mi mancherà anche quello!

Gli ultimi due anni sembravano aver portato anche qualcosa di buono, uno spirito unitario di tutto il mondo dello spettacolo dal vivo, a tutti i livelli. Che cosa rimane?
Di sicuro oggi si percepisce molta più voglia di lavorare, e infatti le produzioni sono aumentate tantissimo. Non so se e quando riusciremo davvero a ritrovare uno spirito collaborativo e a sentirci ancora tutti uniti, ma ci sono tante realtà, come ad esempio l’associazione Unita, che si stanno battendo per questo obiettivo. Credo che gli ultimi due anni ci abbiano aiutato a capire quanto siamo disuniti, perfino dispersi, ma anche che possiamo unirci. Mi auguro che possa accadere presto.

 

La stanza di Veronica
di Ira Levin
regia di Marco Lombardi
con Margherita Tiesi, Laura Bozzi, Aldo Innocenti e Niccolò Migliorini
assistente alla regia Sandra Bonciani
musiche di Stefano De Donato
costumi Fiamma Mariscotti
scenografie Lorenzo Scelsi
disegno luci Silvia Avigo

In scena al Teatro Lumiére (via di Ripoli 231, Firenze)
venerdì 4 e sabato 5 marzo ore 20:45
domenica 6 marzo
ore 16:45

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