Il regista Marcello Cotugno porta in scena la prima parte del progetto “Una Trilogia Tedesca”, che affronta, in maniera lucida, il dibattito post-coloniale o neocoloniale
E’ una satira feroce che mette in luce la complessità e l’intrinseca contraddittorietà dello sguardo occidentale sul continente africano lo spettacolo Peggy Pickit guarda il volto di Dio di Roland Schimmelpfennig, che, dopo l’anteprima nell’ambito della XXI edizione della rassegna “Primavera dei Teatri”, debutterà giovedì 7 aprile 2022 alle ore 21.00 (repliche fino a domenica 10), al Teatro Nuovo di Napoli, con Valentina Acca, Valentina Curatoli, Emanuele Valenti, Aldo Ottobrino, per la regia di Marcello Cotugno.
Presentato da TAN – Teatri Associati Napoli con il contributo del Goëthe Institut Napoli, l’allestimento è la prima parte del progetto Una Trilogia Tedesca a cura di Marcello Cotugno, Valentina Acca, Valentina Curatoli, e si avvale delle scene a cura di Sara Palmieri, i costumi di Ilaria Barbato, la colonna sonora e le luci di Marcello Cotugno.
Karen e Martin tornano a casa dopo aver trascorso sei anni lavorando nello staff di un’organizzazione come Medici senza frontiere in un paese africano non ben definito. Al loro ritorno, vengono invitati a cena dai loro vecchi amici Liz e Frank.
Le due coppie si erano incontrate alla facoltà di medicina, ma da lì in poi le loro vite avevano preso percorsi estremamente differenti. Karen e Martin hanno scelto di prestare assistenza medica in luoghi di estrema povertà, mentre Liz e Frank hanno invece esercitato la loro professione inseguendo obiettivi più tradizionali: la carriera, il guadagno, la costruzione di una famiglia.
A legarli in questa lunga distanza, la presenza di una bambina, Annie, che Liz e Frank hanno adottato a distanza, e di cui Martin e Karen si sono presi cura durante la loro permanenza in Africa.
Durante la cena, l’alcool inizia a scorrere, facendo emergere incomprensioni e gelosie reciproche tra le due coppie. Protagoniste inerti dell’azione diventano inaspettatamente due bambole: Peggy Pickit (che dà nome all’opera), è un costoso giocattolo di fabbricazione occidentale, l’altra è una semplice bambola artigianale di legno. Diventano il simbolo dell’enorme divario tra il capitalismo avanzato del mondo occidentale e la povertà dei paesi in via di sviluppo.
Attraverso i toni a volte ironici, a volte dolorosi di questa commedia amara, il conflitto che anima azioni e relazioni in scena diventa, dunque, metafora di un’inquietudine esistenziale tipica del contemporaneo.
Schimmelpfenning riesce a superare il cliché della commedia su quattro vecchi amici che si ubriacano a cena e straparlano, attraverso l’uso dello straniamento brechtiano. Durante l’azione, i protagonisti spesso si rivolgono al pubblico per esprimere il loro punto di vista, mentre tutto ciò che li circonda rimane sospeso, congelato.
Peggy Pickit guarda il volto di Dio di Roland Schimmelpfennig
7 > 10 aprile 2022 – Teatro Nuovo Napoli
Inizio spettacoli ore 21.00 (giov), ore 18.30 (ven e dom), ore 19.00 (sab),
Info 0814976267 email botteghino@teatronuovonapoli.it
Giovedì 7 ˃ domenica 10 aprile 2022Teatro Nuovo Napoli
(Giovedì ore 21.00, venerdì e domenica ore 18.30, sabato ore 19.00)
TAN – Teatri Associati Napoli
con il contributo del Goëthe Institut Napoli
presenta
Peggy Pickit guarda il volto di Dio
di Roland Schimmelpfennig
traduzione di Marcello Cotugno e Suzanne Kubersky
prima parte del progetto Una Trilogia Tedesca,
a cura di Marcello Cotugno, Valentina Acca, Valentina Curatoli
con
Valentina Acca, Karen
Valentina Curatoli, Liz
Emanuele Valenti, Frank
Aldo Ottobrino, Martin
scene Sara Palmieri, costumi Ilaria Barbato
aiuto regia Martina Gargiulo, assistente alla regia Chiarastella Sorrentino
datore luci Mattia Santangelo
regia, colonna sonora e luci Marcello Cotugno
la foto della locandina è di Ludovica Bastianini
direttore di produzione Hilenia De Falco
durata 80 minuti
Peggy Piggit, una satira feroce che mette in luce la complessità e l’intrinseca contraddittorietà dello sguardo occidentale sul continente africano, è parte della Trilogia Africana di Roland Schimmelpfenning, che ha debuttato a Toronto nel 2011.
Karen e Martin tornano a casa dopo aver trascorso sei anni lavorando nello staff di un’organizzazione come Medici senza frontiere in un paese africano non ben definito. Al loro ritorno, vengono invitati a cena dai loro vecchi amici Liz e Frank.
Le due coppie si erano incontrate alla facoltà di medicina ma da lì in poi le loro vite avevano preso percorsi estremamente differenti. Mentre Karen e Martin hanno scelto di prestare assistenza medica in luoghi di estrema povertà, Liz e Frank hanno invece esercitato la loro professione inseguendo obbiettivi più tradizionali: la carriera, il guadagno, la costruzione di una famiglia.
A legarli in questa lunga distanza, la presenza di una bambina, Annie, che Liz e Frank hanno adottato a distanza, e di cui Martin e Karen si sono presi cura durante la loro permanenza in Africa.
Durante la cena, l’alcool inizia a scorrere e fa emergere incomprensioni e gelosie reciproche tra le due coppie. Protagoniste inerti dell’azione diventano inaspettatamente due bambole.
La prima, Peggy Pickit (che dà nome all’opera), è un costoso giocattolo di fabbricazione occidentale destinato da Liz e Frank ad Annie, l’altra è una semplice bambola artigianale di legno, portata in dono dall’Africa da Karen e Martin per Katie, la figlia biologica dei loro amici.
Le due bambole diventano il simbolo dell’enorme divario tra il capitalismo avanzato del mondo occidentale e la povertà dei paesi in via di sviluppo. Un divario incolmabile sottolineato anche dal racconto che Liz fa di una lettera che Katie ha scritto per Annie, tentativo, forse impossibile, di gettare un ponte tra due realtà troppo lontane.
Attraverso i toni a volte ironici, a volte dolorosi di questa commedia amara, il conflitto che anima azioni e relazioni in scena diventa dunque metafora di un’inquietudine esistenziale tipica del contemporaneo.
Da un lato le due coppie rispondono al richiamo di un’affannosa ricerca di identità e di ruolo nella società (come medici e come individui), richiamo a cui forniscono risposte diametralmente opposte.
Dall’altro, dietro a una contrapposizione che potrebbe superficialmente leggersi come uno scontro buoni/cattivi, emerge una riflessione più acuta e pessimista sul relativismo dei valori, sul confine sottile tra bene e male, compassione e pietà e, non ultimo, sul senso di colpa dell’Occidente e sul paternalismo assistenzialista che permea il rapporto tra l’Europa e le ex colonie.
Schimmelpfenning riesce a superare il cliché della commedia su quattro vecchi amici che si ubriacano a cena e straparlano, attraverso l’uso dello straniamento brechtiano. Durante l’azione, i protagonisti spesso si rivolgono al pubblico per esprimere il loro punto di vista, mentre tutto ciò che li circonda rimane sospeso, congelato.
Il nostro progetto abbraccia questa dimensione brechtiana, utilizzando l’artificio stilistico della rottura della quarta parete per enfatizzare l’elemento didattico del testo, pur mantenendo l’intensità della dimensione relazionale, fulcro del rapporto tra i quattro personaggi in scena.
Anche la ripetizione delle battute diventa un mezzo per rielaborare da diversi punti di vista la scena che abbiamo appena visto, come per concedere ai personaggi il tempo di riaggiustare le loro maschere civili nei confronti degli altri attori, ma anche del pubblico stesso.
Una scena calda ed accogliente, in contrasto con il crescente disagio dei personaggi durante lo scorrere della serata ma allo stesso tempo accompagnata da elementi ad essa avulsi (microfoni ed una loop station) che scandiscono, interrompono e commentano l’azione.
Costumi naturalistici che rimarcano le differenti scelte di vita delle due coppie, musiche sincopate che intercettano le ultime tendenze dell’elettronica, da Miss Kittin a Frank Bretschneider, passando per i territori contaminati dei Penguin Cafè per arrivare alle sonorità post-romantiche del remix di Be my Baby di DM Stith e del piano di Joep Beving; le luci tagliate e puntiformi, che conducono verso una dimensione a metà tra espressionsimo e naturalismo, mutuata e rielaborata dalla cinematografia anni ’20/30 di registi come Pabst, Wiene e Dreyer e da uno stile teatrale che ha i suoi padri in autori come Kröetz, Botho Strauss e Fassbinder.
Una Trilogia Tedesca
L’idea di affrontare una trilogia di testi di drammaturgia di lingua tedesca nasce dalla necessità di esplorare, dopo essermi focalizzato principalmente su drammaturgie di matrice anglo sassone, sulla lingua di Bertold Brecht, autore che porta in seno le radici profonde della post-drammaticità.
Se infatti pensiamo che Brecht abbia sviluppato una personale contaminazione tra teatro, etica, politica attraverso un’epicità, possiamo immediatamente comprendere come queste caratteristiche siano oggi di grande ispirazione per molto teatro di ricerca, sia che utilizzi come mezzo espressivo la parola, che altre forme e modalità di espressione.
La scelta è caduta su tre autori che raccontano, in maniera diversa, la Germania teatrale post-brechtiana. Tre generazioni diverse: Botho Strauss, Roland Schimmelpfennig e un terzo autore giovane, ancora in via di definizione, (data anche la scarsa reperibilità di testi tedeschi tradotti in italiano o in inglese), che apparterrà alla generazione di giovani e brillanti autori come Ewald Palmetshofer, Thomas Köck, Katja Brunner.
Attraverso le diverse epoche dei drammaturghi, si affronterà il tempo del contemporaneo: partendo dal 1989, anno della caduta del Muro di Berlino – evento che ha segnato la fine di un secolo e dato inizio a un ventennio di grandi cambiamenti, sia politici (la fine della Guerra Fredda e la nascita di nuove alleanze internazionali, le guerre di conquista per assicurarsi il petrolio, la lotta al terrorismo di matrice islamica), che sociali (la diffusione esponenziale di internet, il progressivo declino dell’antropocentrismo, i grandi flussi migratori) – i tre testi proveranno a delineare il complesso profilo dell’uomo contemporaneo, tra conflitti esistenziali, problemi etici e riflessioni sul destino del nostro pianeta.
La scelta di cominciare con Roland Schimmelpfennig, secondo nell’ordine generazionale dei tre autori scelti, parte da una mia esigenza di iniziare questo percorso da una scrittura più vicina a quella anglosassone: un’attenzione molto presente al plot, una linearità temporale, un’analisi di personaggi complessi e profondi, seppure attraversati dal richiamo, quasi ossessivo, alla matrice brechtiana che finisce col contaminarli e col renderli post-umani.
Il secondo step della trilogia va indietro nel tempo, appunto a quel 1989, anno in cui Botho Strauss, autore di un ‘teatro della coscienza’, tra i fondatori della Schaubuhne, pubblica Il tempo e la stanza, un testo surreale-espressionista in cui vari personaggi attraversano lo stesso luogo in epoche diverse: una stanza, simbolo dell’ormai decaduto salotto borghese, dove i personaggi cercano di recuperare la propria identità attraverso la ricostruzione – impossibile – del loro passato, quasi ad anticipare quella che di lì a poco Pierre Levy avrebbe definito la ‘Piazza virtuale’, ancor prima dell’avvento violento e fagocitatore dei social. Il testo di Strauss remixa stili e citazioni del teatro, tra tragedia, parodia e brevi sprazzi di naturalismo, mettendo in scena una profonda analisi della natura umana, mostrando, attraverso l’uso di simboli, le lacerazioni e l’irrazionalità dell’uomo, fino quasi a trasformare la pièce in una partitura musicale sulle nevrosi dell’uomo contemporaneo.
Il terzo passo della trilogia ha come tema il post-contemporaneo, autori come l’austriaco Thomas Köck, il cui bellissimo Jenseits Von Fukuyama (Beyond Fukuyama, messo in scena in Italia da Renzo Martinelli), esamina, partendo dal testo del politologo americano Francis Fukuyama La fine della storia, i concetti di ambizione e felicità in un futuro distopico; la svizzera Katja Brunner, il cui Von den Beinen zu Kurz (Too Short in the Legs) esamina l’amore morboso e disfunzionale di un padre verso la figlia; e l’austriaco Ewald Palmetshofer il cui Tier. Man Wird Doch Bitte Unterschicht (Animal. Let us Say Underclass), si interroga, attraverso una crudele e tetra parabola familiare, di quanto ci sia di umano negli animali e viceversa. Questi esempi danno l’idea di quali siano le possibili tematiche del passo finale della nostra trilogia.
Sono autori giovani che si sono spinti oltre, quasi fondendo le esperienze dei padri (da Brecht a Strauss passando per Fassbinder), a volerci mostrare la strada da percorrere per rimanere umani.
Il progetto prevede anche la possibilità del coinvolgimento degli autori, per un approfondimento sulla drammaturgia contemporanea in lingua tedesca.
Marcello Cotugno
Regista, filmmaker, attore, autore, docente. Si forma alla Stabile Teatro Scuola di Napoli diretta da Guglielmo Guidi, al Teatro di Roma con Mario Martone e, alla Biennale di Venezia, agli Atelier di regia di Eimuntas Nekrosius e di drammaturgia di Neil LaBute. In teatro, dal 1996 a oggi, ha diretto oltre sessanta spettacoli, prediligendo la drammaturgia contemporanea. Tra gli autori rappresentati: Edward Albee, Neil LaBute, David Mamet, Letizia Russo, Roland Schimmelpfennig, Rebecca Gilmann, Simon Bennett, Gregory Motton, Pierre Notte, Claudio Fava, Pupi Avati, Sergio Pierattini, Irene Alison, Eric Coble, Jane Birkin, Patrick Marber. Nel 2000 è uno dei vincitori del premio indetto da Mario Martone “7 Spettacoli per un Teatro Italiano per il 2000” con il suo testo: Anatomia della morte di… – rappresentato al Teatro Argentina di Roma e prodotto dal Teatro di Roma e da Beat72.
A luglio 2020 ha diretto The Red Lion di Patrick Marber, prodotto da La Pirandelliana e Teatri Uniti, che ha debuttato in anteprima al Napoli Teatro Festival e al Piccolo di Milano a ottobre 2020. Nel 2021 dirige La Pacchiona prodotta dal Teatro Stabile di Catania.
Per il cinema, si diploma in Filmmaking alla New York Film Academy nel 1999, con il cortometraggio Don’t you need. Somebody to love (menzione speciale al LAIFA 2001 a Los Angeles). Dal 2000 a oggi realizza nove cortometraggi, premiati sia in Italia che all’estero, l’ultimo, del 2018, Il perdono scritto da Dario Iacobelli, con Lino Musella, Valentina Acca, Alfonso Postiglione, Gennaro Di Biase e Emilio Vacca, prodotto da Panamafilm, è stato premiato a Cortinametraggio 2019 per il migliore attore protagonista ed è stato finalista ai Globi d’Oro 2019.
Dal 2015 insegna al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. dal 2009 alla LInk Campius University di Roma, e dal 2020 al Suor Orsola Benincasa di Napoli.