di
Carlo Goldoni
con
Gabriele Lavia, Federica Di Martino
e con
Simone Toni, Giorgia Salari, Andrea Nicolini, Lorenzo Terenzi, Beatrice Ceccherini, Lorenzo Volpe, Leonardo Nicolini
regia
Gabriele Lavia
scene
Alessandro Camera
costumi
Andrea Viotti
musiche
Andrea Nicolini
luci
Giuseppe Filipponio
suono
Riccardo Benassi
regista assistente
Enrico Torzillo
foto
Filippo Manzini
produzione
Effimera, Teatro Di Roma, Teatro Della Toscana
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“Questa Commedia non è che un fatto vero, verissimo, accaduto, non ha molto tempo, in una città di Olanda. Mi fu raccontato da persone degne di fede in Venezia al Caffè della Sultana, nella Piazza di S. Marco, e le persone medesime mi hanno eccitato a formarne una Comica rappresentazione. Il puro fatto, nella maniera colla quale mi venne esposto, era di tal maniera circonstanziato, che quantunque vero, parea inverisimile, e tutta la mia maggiore fatica fu di renderlo più credibile, e meno romanzesco” afferma lo stesso Carlo Goldoni, all’incipit di Un curioso accidente.
L’opera, tra le predilette dall’autore, seppure ebbe scarso successo, è stata scritta e ambientata durante il corso della Guerra dei sette anni, la prima vera guerra mondiale che coinvolse le maggiori potenze dell’epoca. I temi centrali sono quelli della riforma goldoniana del teatro, di cui abbiamo preziosa testimonianza nelle sue Memorie e che, al tramonto della Commedia dell’Arte, hanno dato un volto ai personaggi, rendendo più riconoscibile in essi l’umanità unica e non replicabile che era stata camuffata, sino ad allora, dallo stereotipo della maschera. Fu talmente impietosa l’osservazione critica della contemporaneità che Voltaire lo definì il primo degli illuministi; il pubblico ritrovava se stesso nelle sue commedie degli equivoci di profonda complessità psicologica e di se stesso rideva, garantendogli successo e opportunità di innovazione, oltre gli stereotipi sclerotizzati del teatro trascorso.
Innovativa, alla luce dell’eredità filogenetica della donna, da millenni costretta alla sottomissione dalla cultura patriarcale, è certamente la figura di Giannina, la giovane intraprendente di buona famiglia che si ribella per amore, con l’astuzia dell’inganno, per autodeterminare il suo futuro destino; tuttavia, più curiosa risulta la figura del protagonista Filiberto, interpretato dal regista e attore Gabriele Lavia, padre della fanciulla e ricco mercante che spesso vanta una forte somiglianza con la figlia non a torto, visto l’accidente dell’inganno a cui egli stesso partecipa ai suoi danni, suo malgrado, nella completa inconsapevolezza.
Insieme all’insicuro e intimorito tenente De La Cotérie, pretendente della ragazza, è il personaggio del mercante a compiere l’esilarante ritratto completo della decadenza della virilità, agli albori di un mondo nuovo, ma non meno drammatico, secondo la sotterranea e lucida analisi di Goldoni.
Strani questi francesi, che poi solleveranno il mondo intero con la rivoluzione senza, forse, cambiarne i contenuti e la sostanza, in un secolo dei lumi in cui l’uomo si è forse solo illuso di vederci chiaro, senza però liberarsi dalla sua maschera di buonismo che cela lo stesso egoismo di sempre; compare Arlecchino a rammentarcelo, lasciando intuire che, in fondo, nonostante i caratteri dei personaggi, la commedia continua con la stessa arte di sempre.
Ben si intuisce, grazie alla straordinaria rivisitazione di Lavia che non lascia niente al caso; un teatro di simboli ha accolto gli spettatori che sono ovunque, accomodati in platea, ma anche sul palco: parte vibrante di uno spettacolo che senza anche questi personaggi non avrebbe, infatti, modo di esistere.
Il contesto scenografico non ha comuni riferimenti spaziali e non soltanto sconfigge la quarta parete, ma, alla maniera di Goldoni, vuole innovare il dialogo con la platea, nel pieno di una decadenza attuale, pienamente denunciata; la scenografia stessa lo prova, esponendo la sua miseria diroccata, mentre, comunque, una prova senza fine prosegue magistralmente, diretta e sostenuta dalla sua regia e interpretata con raro affiatamento da tutti gli attori e i pianisti, che portano, visibili, gli abiti scuri della loro profondità nera e quotidiana, malcelata dal robbone di scena.
Sono gli intellettuali del nostro tempo gli artisti, dediti allo studio, alla rappresentazione e alla coraggiosa creazione, in bilico su di un sipario escheriano, che si fa anche tappeto da calpestare, su di un palcoscenico onirico, intimo, mentale e illuminato dalle mezze luci di uno specchio da camerino particolare, forse attraversato dai personaggi che hanno raggiunto questa dimensione per rimescere il sogno alla realtà, il vero al falso, il giusto allo sbagliato, il buono al cattivo, la bugia alla verità, il lieto fine alla fine di un’epoca.
Ines Arsì