Controversa, ma convincente la Salome di Richard Strauss che torna al Teatro dell’Opera di Roma a distanza di 17 anni, ora nella provocatoria e sperimentale regia di Barrie Kosky, produzione del 2020 che arriva da Francoforte, affidata alla superba bacchetta di Marc Albrecht sul podio dell’Orchestra del lirico capitolino.
Una scelta radicale quella di Kosky che aveva incantato il Costanzi nel 2018 con il Flauto magico in versione cinematografica e che adesso propone una regia minimalista praticamente con totale assenza di scene, lasciando il buio totale sul palco, nell’idea di ricostruire la tecnica pittorica di Bacon, affidandosi a una fonte luminosa, un cono di luce (luci di Joachim Klein) che nel buio assoluto segue i cantanti per farli diventare personaggi che vengono posti al centro dell’attenzione.
Una regia regia audace, con qualche momento particolarmente provocatorio, per un’opera difficile che affascina, ma che al tempo stesso non può non inorridire, totalmente costruita intorno alla figura di Salome, che chiede al patrigno Erode la testa di Giovanni Battista per vendicarsi della sua passione rimasta insoddisfatta.
L’allestimento proposto è di tipo contemporaneo, scene e costumi moderni firmati da Katrin Lea Tag che immagina abiti che spaziano dagli anni venti agli anni cinquanta.
Salome, donna indipendente e controversa, sfoggia numerosi cambi d’abito, così come varia la sua sfaccettata personalità, spaziando fra luccicanti paillettes, abiti in raso o outfit in total black. La totale assenza di scena concentra tutta l’attenzione sui personaggi o sul personaggio.
Salome è per Kosky una mutevole figura femminile, donna e bambina carnefice, ma mai vittima che racconta la sua verità, una sorta di adolescente dotata di fervida immaginazione che riesce a soddisfare la sua fame d’amore solo con un tremendo atto di necrofilia.
Di certo non c’è nulla di polveroso o lontanamente biblico nella regia di Kosky che mette in scena una sorta di incubo notturno chiamando in causa lo spettatore ed eliminando il punto di vista maschile.
Ovvio che in una regia così anticonvenzionale, Kosky decide di personalizzare anche i due momenti particolarmente scivolosi dell’opera, ma sempre giocando sulla sottrazione. In un incubo notturno dove nulla è quello che è, la danza dei sette veli di Salome, viene sostituita dalla protagonista in scena alle prese con una scena dagli accenti eristici con la massa di capelli di Jochanaan, anche fin troppo lunga e che non rende giustizia alla magnifica musica di Strauss.
Il finale diventa agghiacciante con la testa ciondolante del profeta (non più su un piatto d’argento) fra le mani insanguinate di Salome che tradisce incongruenze con il libretto lasciando inorridire lo spettatore.
Attenzione perché se la regia può non convincere del tutto, è una visione che resta dotata di una coerenza non indifferente, di un lavoro straordinario compiuto sui cantanti – attori. Buca dell’orchestra diretta con mano sfavillante e sapiente da Marc Albrecht, direttore d’orchestra di fama internazionale, punto di riferimento nel repertorio tardo romantico: Albrecht dà spazio a una partitura raffinata e complessa, ma senza perpetrare alcun eccesso, sofisticata nei ritmi, ma sempre perfettamente bilanciata cui l’orchestra dell’opera si presta con estrema duttilità e coinvolgimento.
Lode al cast in scena. Protagonista assoluta, uno dei maggiori interpreti straussiani, nel terribile e temibile ruolo di Salome, Lise Lindström, al debutto sul palco dell’Opera di Roma, ma esperta nel ruolo, che si distingue nel tratteggiare un personaggio visto come una donna indipendente, complessa e controversa, preda dei suoi capricci. È una Salome dalla voce ora potente e matura, ora delicata e ammiccante, strepitosa. Riempie il teatro anche la possente presenza scenica e la voce di Nicholas Brownlee, un Jochanaan seminudo provato dalla prigionia, Erode è John Daszak, Erodiade è Katarina Dalayman statuari comprimari in scena.
Un successo per il teatro affollato anche per un’opera non facile con una regia non scontata apprezzata dal pubblico in sala.
Fabiana Raponi