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Mar del Plata. Gli “angeli del rugby” che osarono sfidare il regime argentino

fotoSono giovani, ventenni, atletici, scanzonati, commentano la partita e si sfottono con un lessico da spogliatoio sboccato e incisivo. Sudati e accaldati si liberano di magliette e pantaloncini, fanno qualche esercizio di stretching per distendere i muscoli, una doccia e poi correre verso la libertà, l’amore, le ragazze. È La Plata Rugby Club, in provincia di Buenos Aires.

Fuori dallo stadio, però, la vita in Argentina alla fine degli anni ’70 presentava dei pericoli per chi sceglieva di non allinearsi. Nello spogliatoio piomba la tragica notizia della sparizione di Hernan Roca, mediano di mischia e studente di medicina: non si occupa di politica, è stato prelevato a casa da una ‘patota’ scambiato per suo fratello Marcelo militante del gruppo radicale peronista. È il 1975.

La domenica successiva, nella partita contro il Córdoba i compagni ottengono un minuto di silenzio. Ne passano dieci prima che decidano di muoversi e iniziare a giocare, anche il pubblico è impietrito. È sfida aperta. Lo spogliatoio si trasforma in una cellula del partito marxista-leninista argentino, pronto a resistere agli squadroni della Tripla A (Alianza anticomunista argentina) che seminano terrore e morte. I giocatori sono forti e tenaci e si credono invulnerabili “non possono ucciderci tutti”; ne verranno eliminati diciassette, militanti della sinistra o del movimento studentesco e montoneros, alcuni spariti nel nulla altri ritrovati legati e crivellati di colpi. Mariano e il Turco avevano partecipato a un’assemblea sindacale e pertanto ritenuti futuri guerriglieri, poi Santiago, Otilio, Pablo e via via gli altri. La squadra rimane in campo fino alla fine del campionato, con gli assenti sostituiti dai giovanissimi, avendo tutti rifiutato di mettersi in salvo in Francia insieme all’allenatore Hugo Passarella che incitava i suoi ragazzi a pensare solo al rugby e a giocare per lo sport e invece loro giocavano per la libertà, sostenuti dal pubblico che affollava lo stadio.

Il colpo di stato del 24 marzo 1976 con l’avvento del generale Videla istituzionalizza il terrore, con lo sterminio o la sparizione di tutti gli oppositori e militanti.

Si salvò solo Raul Barandiaran, cui una lunga tournée in Europa consentì di essere più cauto nel fronteggiare la ferocia dei militari. Dopo anni di silenzio, oppresso dal senso di colpa che aggredisce i sopravvissuti alla barbarie umana, Raul ha cominciato a parlare della passione e del coraggio dei suoi compagni, emblema della voglia di opporsi all’efferatezza e alla sopraffazione di tutta la gioventù argentina di quel periodo, una generazione (oltre trentamila) sterminata dalla viltà della dittatura. Claudio Fava, anch’egli testimone di un’altra guerra nella quale ha perso il padre ucciso dalla mafia, ha trasformato quelle parole in racconto e in rappresentazione scenica che va in scena al Piccolo Eliseo in prima nazionale, con la regia di Giuseppe Marini.

Scrive Fava: “In Italia un’altra guerra e un altro nemico che non facevano prigionieri si erano portati via, assieme a tanti altri, anche mio padre. Si moriva in Argentina come in Sicilia perché una banda di carogne regolava in questo modo i propri conti con i dissidenti. In questo Jorge Rafael Videla e Nitto Santapaola si rassomigliano. E si rassomigliano anche i loro morti. Alla fine poco importa che quei ragazzi fossero argentini o siciliani. Importa come vissero. E come seppero dire di no”.

Giovanni Anzaldo interpreta Raul, atletico e tenero, Claudio Casadio è l’efferato torturatore, Fabio Bussotti è il paterno allenatore. Vigorosi e irriducibili tutti gli altri, arroccati nello spogliatoio che le scene di Alessandro Chiti hanno trasformato in un fortilizio: Andrea Paolotti, Tito Vittori, Edoardo Frullini, Fiorenzo Lo Presti, Alessandro Patregnani, Guglielmo Poggi e Giorgia Palmucci.

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