Una Carmen lontana dagli stereotipi quella messa in scena da Pietro Babina, con la direzione d’orchestra di Frédéric Chaslin, che ha debuttato il 18 marzo al Teatro Comunale di Bologna (dove rimarrà in scena fino al 29 marzo) suscitando qualche perplessità in merito alla regia, un po’ diversa dall’immaginario imperante sull’opera francese, ma che, a mio avviso, non ha tolto enfasi e vigore a una delle opere liriche più sanguigne e viscerali di sempre. Pietro Babina viene dal teatro di ricerca, si è sempre dedicato ai nuovi linguaggi espressivi, conquistando diversi premi Ubu. Creatore dello sperimentale Teatrino Clandestino e attuale coordinatore del gruppo Mesmer approda con la Carmen di Georges Bizet, per la prima volta, al teatro dell’opera.
Lo fa scegliendo una regia sobria, essenziale, in cui niente si sovrappone in modo schiacciante alla musica anzi, la scena cerca di infilarsi negli interstizi per esaltare le sfumature musicali e canore dell’Opera. Sceglie anche di tracciare una Carmen meno impetuosa di quella a cui siamo abituati. La protagonista qui è vittima, più che artefice, del suo fascino, del desiderio che suscita negli uomini e della sua irruenza. Tuttavia saranno proprio queste caratteristiche e la volontà di non rinunciare alla sua libertà per niente e nessuno a renderla vittima di un destino già predeterminato. Proprio come ogni personaggio che entra in scena anche lei ha un destino scritto che si dovrà ancora compiere ma già segnato.
Ed è in quest’ottica che Pietro Babina decide di inserire un personaggio nuovo, non presente nel libretto, che accoglie il pubblico e lo guida nella complicata trama che si snocciola sul palcoscenico. È un mago, un’illusionista a guidare ogni azione, a muovere gli eventi e gli scatti drammaturgici di questa Carmen. Una sorta di factotum che muove i personaggi e annuncia, prima ancora che tutto accada, il destino a cui andranno incontro i personaggi. Il movente dell’azione viene deviata dall’irrazionalità dei sentimenti e della passionalità che porta a fare gesti disperati al fato come artefice che manipola l’azione e crea gli eventi.
Vista con gli occhi della contemporaneità, la più importante opera di Bizet, si spoglia di qui di numerosi cliché. Carmen, vittima della finzione (insita nel suo essere personaggio, dunque inventata e incapsulata in un immaginario predeterminato), svolge la sua azione in una spagna turistica, con cartelloni di offerte low cost che campeggiano sul fondo, e con i visitatori che, in massa, desiderano vedere le tipicità del luogo. Proprio come succede nella scena della taverna di Lillas Pastia, immaginata dal regista come un locale che organizza serate in cui danze tradizionali e giochi di prestigio animano le serate dei turisti curiosi di scoprire la cultura spagnola. Carmen, ancora una volta intrappolata nel desiderio altrui, oltre al suo lavoro in fabbrica, si esibisce nel locale come ballerina. Anche il Torero è qui rappresentato come un entertainer che sogna di fare il cantante, dispensando volantini dei suoi spettacoli perfino ai migranti oggetto di contrabbando da parte di Carmen e dei suoi “compagni”, e intanto interpreta Escamillo, colui che ruberà il cuore di Carmen a Don Josè, portando quest’ultimo a una gelosia accecante il cui esito finale sarà drammatico.
Anche i gesti simbolici sono una caratteristica di quest’allestimento: la mano di Carmen poggiata sul petto di Don Josè, gesto che non solo segnerà l’ossessione di Don Josè per la donna ma anche l’inizio della fine, un’azione piena di fatalità. Anche l’anello che l’uomo regala a Carmen e che gli verrà restituito, nello svolgersi degli eventi, per ben tre volte, non è semplicemente un oggetto ma il simbolo della volontà di Carmen di non volersi legare, del suo desiderio di difendere la libertà. “Carmen non cederà, libera è nata e libera morirà” dirà restituendo per l’ultima volta l’anello, prima di morire.
Veronica Simeoni è molto convincente nel ruolo della protagonista ed è in grado di dare a questa Carmen una femminilità forte e delicata e una personalità enigmatica, misteriosa, dai tratti pirandelliani, come sostiene lo stesso regista, in cui l’interesse non si concentra tanto su chi il personaggio è, ma su cosa noi desideriamo che sia. L’affiatamento che si percepisce poi con il suo compagno di scena e anche di vita Roberto Aronica, nei panni di Don Josè, è perfetto. Lui è forte e vigoroso, tanto quanto lei è sfuggente e inafferrabile. Anche le loro voci si compenetrano: raffinata e dai riflessi caldi quella di lei e tracotante e con accenti perentori quelli di lui. Meno convincente invece risulta la Micaela di Maria Katzarava sia come presenza scenica che come interpretazione vocale, soprattutto negli acuti dove l’urlo sembra predominare sul canto. La direzione d’orchestra di Frédéric Chaslin è puntuale e rispettosa della partitura originale, riuscendo a coglierne tutto il pathos e l’irruenza sonora.