di Carlo Goldoni
drammaturgia di Vitaliano Trevisan
regia Andrée Ruth Shammah
con Marina Rocco, Matteo De Blasio, Roberto Laureri, Elena Lietti, Alberto Mancioppi Silvia Giulia Mendola, Umberto Petranca, Andrea Soffiantini
scene e costumi Gian Maurizio Fercioni
luci Gigi Saccomandi
musiche Michele Tadini
produzione Teatro Franco Parenti
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Andrée Ruth Shammah colloca i personaggi de “Gli Innamorati” di Carlo Goldoni entro pareti rosso pompeiano la cui tinta è consunta dal tempo, segno delle precarie condizioni economiche in cui il signor Fabrizio versa insieme alle sue due nipoti di cui ne ha scialacquato probabilmente le doti. Un ampio vano fa da salotto, con sedie sparse ed un tappeto semi-arrotolato, mentre tre appendiabiti fanno capolino dinanzi alle due porte d’entrata e d’uscita dei personaggi, stabilendo così la cifra metateatrale dell’allestimento. Di canto infatti, sulla destra dell’assito è collocata la sedia “da regia” che reca il nome di Goldoni; non sarà l’autore a sedersi, bensì Ridolfo, amico dell’innamorato Fabrizio, sguardo oggettivo e conoscitore della psicologia di entrambi gli amanti, ed avvocato come fu lo stesso commediografo.
La commedia in questione colpisce perché – come lo stesso drammaturgo accenna nella prefazione – trattando d’amore, non pone ad esso alcun ostacolo ma semplicemente tratteggia, portandolo sino al parossismo, lo stato d’animo di chi, nutrendo questo sentimento, è avviluppato dalla logorante sferza della gelosia che fa esplodere la fragilità che nasconde ciascuno di noi e, soprattutto, quella irrazionale brama di esclusività che si pretende da chi si ama. Per questo se ne apprezza la vivacità dei dialoghi e la relativa costruzione che implica una dinamica reazione di tutti quanti i personaggi che incorniciano Eugenia e Fabrizio. Essi ne interpretano i battibecchi, basati su un rimpallo infinito dei rispettivi moti di rabbia e di aggressività e che molto modernamente significano incapacità di mettersi in comunicazione con l’altro e il negarsi la possibilità dell’empatia, della comprensione o della tenerezza. Questo è il motore drammaturgico, restituitoci dall’adattamento di Vitaliano Trevisan, e che Goldoni stesso ci fa vedere con una particolare lente d’ingrandimento, vale a dire quella vena iperbolica che strizza l’occhio ad una sottile caratterizzazione parodica da un lato e dall’altro ad un cinismo di fondo che permette di passare sotto un setaccio decisamente “morale” i suoi personaggi, con le sue irremovibili raccomandazioni didascaliche in prefazione, di schernirli badando bene a non far la lo stessa fine.
Tutto ciò è ampiamente rispettato dalla regista Shammah che argutamente riesce a veicolare – attraverso la caratterizzazione di Fabrizio ed il duca d’Otricoli – la mediocrità di pensiero che circonda i due giovani, fatta di avidità, di stolida ambizione entro la propria città e, quindi, l’ansia di apparire che rende lo zio di Eugenia e Flaminia ed il nobile millantatore Roberto, complemento necessario al racconto della coppia stessa.
La peculiarità di questa regia sta nel condurre la commedia con un vivace gioco di metateatro; sicché i personaggi passano dall’uno all’altro, utilizzando gli appendiabiti in scena, con l’obiettivo, si presuppone, di costituire una dimensione corale che compartecipi alla storia della coppia. Sono così gestite le varie entrate ed uscite dei personaggi – Fulgenzio ed Eugenia sono di rado soli in scena – e non mancano parentesi “didascaliche” per le quali si abusa del proscenio per spiegare alla platea le condizioni psicologiche degli amanti. Ma il perno centrale della regia si rinviene nella dissimulazione della commedia stessa che fa della scena un unico ludere in cui i protagonisti si riconoscono e si dilettano nello smascheramento della finzione, quel gran teatro del mondo al quale Goldoni tanto guardava, sino a tramutarla in una sorta d’exemplum.
Nel complesso “Gli innamorati” di Andrèe Ruth Shammah ripropone filologicamente il testo goldoniano mantenendo un ritmo vivace – servendosi anche di registi interpretativi “sopra le righe” nel definire, specie di Eugenia (Marina Rocco), una frivola vezzosità –. E se il metateatro ci ripresenta tutta la verve goldoniana, conducendoci nel disincantato mondo della classe media settecentesca e nelle piaghe della sua mentalità gretta rispetto all’economia, ai beni materiali, è pur vero che esso si contenta di offrire a noi, pubblico odierno, la semplice godibilità dei molto testi goldoniani. Sobri i costumi, scevri di fasti tradizionali settecenteschi, per i quali prevale il colore bianco, ciò non sottrae né aggiunge nulla di sostanziale. Infatti, dopo aver applaudito i singoli interpreti, tutti veramente ottimi, ripensiamo però a che senso abbia oggi vedere un Goldoni, a quale chiave di lettura ulteriore e nuova appellarci per continuare a coglierne il senso del suo teatro. È probabile che tale riflessione è sospinta da un affastellarsi di classici che quest’anno sono andati in scena allo Stabile di Napoli; egregie maestranze e buoni interpreti, ma produzioni che trincerano la tradizione in un immobilismo di valori e di intenti, un teatro stanco che ci invita a mettere in discussione il rapporto con il nostro passato, e i (nostri) poeti.