Festival di Teatro e Musica Scenari Pagani Ventesima edizione – cambia senso
testo e regia Emma Dante
con Carmine Maringola
luci Cristina Fresia
foto Giuseppe Di Stefano
produzione sud costa occidentale
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“Acquasanta” è il primo capitolo, ciascuno dei quali è uno spettacolo autonomo, de “La trilogia degli occhiali”. In scena, il mozzo-marinaio Carmine Maringola, ‘o spicchiato, che con Emma Dante, regista, drammaturga e costumista, cura anche la scenografia dell’intera trilogia (Acquasanta, Ballarini, Castello della Zisa).
Le tre storie sono raccolte nell’omonimo romanzo edito da Rizzoli.
Il filo che unisce i tre spettacoli è dato dal ruolo unificatore degli occhiali, indossati dai protagonisti delle tre storie.
Un uomo si ancora sul palcoscenico, a prua di una nave immaginaria. Sta. Esperto nel manovrare gli ingranaggi che muovono la nave, ‘o Spicchiato si salva dalla finta burrasca che mette in scena per rievocare i ricordi della sua vita di mozzo. È imbarcato dall’età di 15 anni e da allora non scende dalla nave. Non crede alla terraferma, per lui è ‘n’illusione. Sopra la sua testa pende il tempo del ricordo: una trentina di contaminuti ticchettìano inesorabili. Poi suonano e tutto tace. Il mare smette di respirare e ‘o Spicchiato rivive l’abbandono. Un giorno la nave salpa senza di lui, lasciandolo solo e povero sul molo di un paese straniero: la terraferma. Proprio lui che giù dalla nave si sente perso, che ha votato la sua vita alla navigazione, che giorno e notte ha bisogno di parlare con il suo unico grande amore: il mare. Le voci della ciurma, del capitano, gli rimbombano nella testa e ‘o Spicchiato, cantastorie, tira i fili dei suoi pupi. Ma a forza di aspettare, il mozzo, diventa di legno come polena di un vecchio galeone. – Emma Dante
È’ già in scena quando entra il pubblico Carmine Maringola che beve e come prologo si diverte a lanciare lunghi getti d’acqua sputando sul pubblico. Si muove, si agita, si dimena come un burattino, tirando le corde, che lo legano alla vita e alle caviglie, alle cui estremità son fissate tre ancore che fanno rumore, inquietanti e freneticamente precarie nel loro movimento.
Scompostamente il marinaio, anzi il mezzo mozzo, racconta e rivive momenti e ricordi della sua vita sulla nave, cantando e ballando, ma fulcro centrale della narrazione è il mare, di cui è profondamente innamorato e da cui viene sprezzantemente e continuamente spruzzato da schiaffi di acqua salata. È questa l’acquasanta, non l’acqua dell’acquasantiera come si potrebbe essere indotti a pensare evocando profumi d’incenso e litanie di rosari in una grigia atmosfera siciliana. E non parla nemmeno siciliano!
È così straordinariamente affascinante la nostra lingua italiana, anche quando viene declinata nei suoi dialetti!
L’uomo in scena si esprime in dialetto napoletano, la lingua ormai adottata dalla Dante “Perché è a Napoli – ha detto in un’intervista – che mi offrono il lavoro”.
Forse un po’ ricorda quel Pianista sull’oceano di Tornatore ricavato dal Novecento di Baricco, perché dopo aver scoperto attraverso quelle acque salate e benedette l’infinito e le stelle, lui non sarebbe mai sceso a terra dalla nave.
Quando si ‘vuol trovare qualcosa’ come la perla nella conchiglia, in un testo, che sia una canzone, un romanzo, un saggio o una scrittura drammaturgica, con impegno, ostinazione e buona volontà, ci si riesce quasi sempre. In un modo o nell’altro si cerca di mettere in luce parole che diano senso ad una frase e frasi che compongano un pensiero e pensieri che formulino un concetto. E così i concetti diventano metafore, cifre stilistiche, visioni, paradigmi, che si traducono in trame analizzando, sperimentando, scavando in profondità nelle storie di uomini disperati, disagiati, disarmonici, scontenti e delusi, incapaci di relazioni evolutive, ostinatamente rivolti e contorti ed avvolti nelle spire del serpente tentatore e ingannatore di una società dimentica della sua maledizione. Perché le parole non sono soltanto emissioni d’aria , onde sonore che fluttuano nell’etere, ma vibrazioni che accarezzano, graffiano, e qualche volta uccidono. Anche cantate, strillate, ricordate e ripetute. E poi ci sono le parole che mancano, che non arrivano, che fanno male per non essere state mai pronunciate.
E dunque come potrebbe “Acquasanta” scritto e diretto da Emma Dante, palermitana, promessa ormai mantenuta del teatro contemporaneo, non essere acclamato dal successo? La critica accredita “la trama drammaturgica che scioglie la sua complessità in ironia significativa e fulminante, con una Emma Dante che conferma le sue indubbie, e ormai certamente di respiro e peso europeo, capacità di scrittura, ed una arte recitativa che traduce in contemporaneità i migliori elementi della tradizione….: un talento poetico unico in Italia…”
Allora qualche voce fuori dal coro potrebbe essere l’eccezione che conferma la regola o no?
La discussione ha sempre fatto bene allo sviluppo culturale e così anche le critiche, anche se sembrano ormai fuori moda.
Sicuramente non noioso, lo spettacolo, breve nei suoi 45 minuti (come spesso accade nella nuova ‘abitudine teatrale’), può valersi di altri aggettivi quali la fantasia del pubblico vorrà attribuirgli.
Applausi di cortesia, non convinti.