Un ballo in maschera inaugura la nuova stagione del Teatro La Fenice dopo un’assenza di quarantatré anni, se si esclude la ripresa del 1999 al Tronchetto che riportava la vicenda a Stoccolma nel 1792. L’ultimo Riccardo prima dell’incendio del 1996 fu Luciano Pavarotti nell’aprile 1974. Per ironia della sorte, ne Il mio Verdi di Leonetta Bentivoglio troviamo un’intervista in cui il tenore modenese cita un Ballo ad Amburgo risalente a quel periodo. Chieste invano informazioni ai nostri colleghi critici e navigato a vuoto nel web, salvifico è il contributo dell’ufficio stampa della Staatsoper Hamburg che celermente invia locandina e foto. Lì nell’aprile 1973 Pavarotti cantò Riccardo diretto da Nello Santi, con affianco Sherrill Milnes, Orianna Santunione, Ursula Boese e Regina Marheineke nei ruoli principali. Perché tanto interesse? Perché il regista John Dexter e la scenografa Julia Trevelyan Oman già allora ambientarono il Ballo nell’America del 1866, durante il conflitto tra Sudisti e Nordisti con tanto di Ku Klux Klan, stando alle parole di big Luciano. Non sappiamo se Gianmaria Aliverta, a cui la Fondazione affida il primo spettacolo della sovrintendenza Ortombina, ne fosse al corrente. Fatto sta che anche il giovane novarese traspone l’azione nella Boston degli anni 1867-1887, terminata la Guerra di Secessione e abolita la schiavitù. Dal tema sentimentale, che fa di questo “vorticoso, tragico poema di un amore impossibile e disperato […] il Tristano e Isotta di Verdi” come scriveva bene Massimo Mila, l’attenzione viene spostata su quello politico sviluppato con l’introduzione di Stars and Stripes, neri vittime dei bianchi e/o degli incappucciati del KKK, la Statua della Libertà e cospirazioni contro chi dimostra tolleranza verso i neri. L’idea di per sé non è dannosa, ma la regia manca di incisività e i personaggi rimangono poco approfonditi. Alcune distrazioni – un foglio gettato nel camino spento, caccole registiche – le specchiere mosse al ritmo dell’aria Dì tu se fedele e difficoltà nel gestire le masse – il coro costretto nei movimenti coreografici di Barbara Pessina nello spazio limitato tra la scalinata e la testa di Lady Liberty, rendono lo spettacolo oggettivamente di scarso appeal. Le scene di Massimo Checchetto seguono il discorso portato avanti da Aliverta e si pregiano d’una riutilizzabile genericità, ma non della funzionalità visti i lunghi cambi che giocoforza allentano la tensione drammatica. Il cupo light design di Fabio Barettin fa risaltare i costumi di Carlos Tieppo.
Ricordiamo Myung-Whun Chung a Venezia, oltre che per Traviata e Rigoletto nel 2010, per Otello nel 2012 e Simon Boccanegra nel 2014, memorabili per la qualità musicale che cavò fuori da professori e cantanti. Si conferma anche qui, complice un’Orchestra perfetta, direttore abile nel ricercare i colori e le loro possibili sfumature, mago nel non perdere il rapporto con il palcoscenico, circostanza possibile data la disomogeneità della compagnia, ma qui e lì latita quella lineare perfezione profusa in passato, a vantaggio di un’esecuzione a tratti smorta e spenta.
Poche luci e molte ombre sul cast. Sufficiente Francesco Meli, Riccardo appassionato, dal timbro caldo, buona dizione coniugata con fraseggio curato e sicurezza vocale. Incidono negativamente la limitatezza di alcuni acuti, l’uso di prassi interpretative demodé – ridere sulle note del quintetto E’ scherzo od è follia è vezzo già vituperato al tempo da Verdi, cali d’intonazione e un narcisistico autocompiacimento volto a celebrare più Meli che Riccardo. Il Renato di Vladimir Stoyanov è conforme alla media dei baritoni che siamo soliti sentire in Fenice negli ultimi anni. L’interpretazione è misurata, forse troppo, la voce discreta, ma con qualche tara nel timbro anodino. Imbarazzante l’Amelia di Kristin Lewis. Inudibile nel terzetto del primo atto, arranca a gestire la parte impietosa adatta solo a un vero soprano drammatico, cosa che Lewis non è. La linea di canto è disomogenea, forzata in acuto, sovente afflitta da problemi d’intonazione e dalla dizione scorretta. Brutta la cadenza di Ecco l’orrido campo. Silvia Beltrami, splendida Suzuki quest’estate in Arena, nulla ha da spartire con Ulrica a cui manca quello spessore vocale che solo un contralto può darle. Bene Serena Gamberoni, Oscar disinvolto, l’unico ruolo che nella regia di Aliverta possieda autorità drammaturgica. Pirotecniche le colorature in Voltea la terra, meno duttili in Di che fulgor, che musiche, ma nel complesso l’interpretazione è eccellente. Samuel ha la voce di Simon Lim, in quest’occasione più curata del solito, mentre Mattia Denti è Tom alterno, con qualche incertezza nel terzetto Dunque l’onta di tutti sol una. Perfetto il Silvano di William Corrò, artista che, continuiamo a ribadire, meriterebbe ruoli di rilievo. Corretti il giudice di Emanuele Giannino e il servo di Amelia di Dionigi d’Ostuni.
Davvero apprezzabile la prova del coro, preparato da Claudio Marino Moretti, perfezionabile quella dei Piccoli Cantori Veneziani di Diana D’Alessio.
Al termine della recita del 1 dicembre, il nutritissimo pubblico, tra cui molti turisti, tributa consensi calorosi per Meli, Gamberoni e Chung, cortesi per Lewis.
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Un ballo in maschera
Melodramma in tre atti
Libretto di Antonio Somma da Gustave III, ou Le Bal masqué di Eugène Scribe
Musica di Giuseppe Verdi
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Personaggi e interpreti:
Riccardo: Francesco Meli
Renato: Vladimir Stoyanov
Amelia: Kristin Lewis
Ulrica, indovina: Silvia Beltrami
Oscar: Serena Gamberoni
Silvano, un marinaio: William Corrò
Samuel: Simon Lim
Tom: Mattia Denti
Un giudice: Emanuele Giannino
Un servo d’Amelia: Dionigi D’Ostuni
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Maestro concertatore e direttore: Myung-Whun Chung
Regia: Gianmaria Aliverta
Scene: Massimo Checchetto
Costumi: Carlos Tieppo
Light designer: Fabio Barettin
Movimenti coreografici: Barbara Pessina
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Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del coro: Claudio Marino Moretti
Piccoli Cantori Veneziani
Maestro del coro: Diana D’Alessio
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice