Una diva immortale consapevole di essere alla conclusione della sua parabola umana, ne rivive i momenti salienti, in una sorta di lucida regressione con la forzata complicità del segretario.
Eric-Emmanuel Schmitt, autore eccelso del panorama drammaturgico contemporaneo, adotta il testo di John Murrell “Memoir di Sarah Bernhardt” scrivendo una sceneggiatura che indaga e sviscera i recessi della psiche, con un percorso analitico e un impianto narrativo che la regia di Marco Carniti rende emotivamente coinvolgente.
Attrice divenuta diva e mito, anticonformista ed egocentrica, ha spezzato le regole perbeniste imponendosi sulla scena teatrale mondiale con interpretazioni memorabili, perfino in ruoli maschili come Amleto.
Sarah e Pitou sviluppano un legame quasi sadomaso nella reiterazione di un gioco di ruoli in cui la diva riesamina il suo vissuto e l’uomo l’asseconda, pur recriminando, camuffandosi nelle diverse figure che hanno attraversato la sua esistenza personale e artistica. In un rapporto pseudo-amoroso lui accetta di indossare una maschera per consentire a lei di liberarsi delle sue e rimarginare le ferite tramite la finzione.
I continui passaggi da un’età all’altra e da un personaggio all’altro costringono il malcapitato segretario a repentini cambi di registro e piccoli trasformismi, recitando parti che ormai conosce a memoria. Con un vezzoso cappello è l’autoritaria madre che non ha amato Sarah ritenendola priva di ogni qualità femminile preferendole la sorella, con uno scialle è la madre badessa del collegio. Impettito e servizievole subisce invettive e scatti d’ira, asseconda gli umori della signora prendendo appunti per il memoriale, annotando aneddoti che successivamente interpreteranno in un continuo gioco metateatrale.
Eccessiva, autoironica e perfino grottesca, con ira iconoclasta rompe i dischi dopo aver ascoltato la musica, sfrontatamente paragona la sua fama di diva del XX secolo alla luce del sole che tramonta apparentemente per continuare a brillare dall’altra parte del mondo.
Tutte le grandi figure della seconda metà dell’Ottocento sfilano sul palcoscenico con i camuffamenti di Pitou: scrittori, pittori, poeti, l’aristocratico marito greco morfinomane, Proust, D’Annunzio, Bernard Shaw e Oscar Wilde che le sussurra che non morirà mai. Lei stessa, tra ironia e risentimenti, racconta aneddoti che rivelano le sue bizze eccentriche come dormire in una bara, i successi della tournée in America e le memorabili interpretazioni delle eroine tragiche di Racine o Dumas per le quali è morta magistralmente innumerevoli volte. Ma il volo di Tosca le fu fatale, per l’assenza del materassino.
Trascinando l’arto di legno continua indomita a recitare la sua vita, per esorcizzare la morte, sprigionando l’intima essenza che sgorga dagli abissi del passato per affacciarsi sull’infinito, paragonandosi agli astri.
Grandiosità del mito, fragilità della donna.
Anna Bonaiuto è duttile in tutte le sfaccettature di questa complessa personalità, maestosamente elegante con gli abiti di Maria Filippi, coadiuvata da Gianluigi Fogacci eclettico trasformista nell’assumere i contorni di ogni personaggio, con indubbi effetti comici, abbigliato da dandy col parrucchino fissato con le mollette.
La candida scenografia con arcate liberty di Francesco Scandale ripartisce orizzontalmente lo spazio: di qua l’ambiente quotidiano con i faldoni, il grammofono e la chaise longue, sullo sfondo il grande disco del sole che si illumina e tramonta scandendo il perenne trascorrere del tempo.