Quando Giacomo Puccini iniziò a pensare alla messa in scena di Tosca aveva 31 anni. Non era ancora del tutto affermato e dovette affrontare non solo le resistenze dei librettisti, che ritenevano il dramma di Victorien Sardou poco adattabile all’arte del melodramma, ma anche la delusione per un successo che arrivò solo molti anni dopo la prima, avvenuta al Teatro Costanzi di Roma, a cavallo tra i due secoli, nel 1900. Eppure in Tosca si leggono tutte le note di Puccini, di quel Puccini che oggi amiamo e che consideriamo uno dei più grandi geni di tutti i tempi e uno dei massimi autori del teatro musicale.
Ma si sa, il teatro è una cosa estremamente complicata e spesso inafferrabile. Chi legge questa pubblicazione sicuramente capirà il senso di questa frase: l’alchimia necessaria ad equilibrare alla perfezione tutti gli elementi che lo compongono è complessa e spesso misteriosa. Questo vale in modo particolare per l’opera, dove le parti che formano l’armonia si moltiplicano tra buca, palcoscenico e dietro le quinte. Eppure accade, raramente, inequivocabilmente e non sempre in modo del tutto chiaro, che questa alchimia, quella che tutti noi affamati di bellezza cerchiamo, si compia misteriosamente e, per chi deve scomporla e capirla senza aver potuto seguirne gli artefici del processo creativo, diventa estremamente difficile darne una ragione chiara.
Ciononostante, quella ragione è lì, dietro al sipario, e ti si impregna addosso anche quando esci in strada in una fredda e umida notte milanese, attorniato da una folla ancora estasiata, quasi inebetita, che si riversa in quella galleria Vittorio Emanuele II percorsa da così tanta storia.
Una sindrome di Stendhal, forse, che si dissolve lentamente e fino a quel momento si percepisce davvero, come la consapevolezza di aver assistito a qualcosa di unico, che è accaduto in quel momento e non si ripeterà mai più. Una consapevolezza che permane quasi fino a casa, quando, camminando nella periferia milanese, ti capita di ascoltare ancora, alle tue spalle, commenti entusiastici di un gruppo di studenti forse poco più che ventenni, che per la prima volta entravano all’opera, poche ore prima. Perché davvero la bellezza è impalpabile, fievole, caduca, eppure universale.
Questo è quanto succede con questa produzione del Piermarini di Tosca, diretta da Riccardo Chailly con la regia di Davide Livermore e le scene dello studio Giò Forma.
Una produzione classica e moderna allo stesso tempo, dove il regista non si perde in vanagloriose e bizzarre interpretazioni personalistiche – come sempre più spesso accade – ma resta fedele al libretto, pur riuscendo a infondere all’insieme un tocco di contemporaneità.
Una regia che potremmo definire cinematografica, forse hollywoodiana, per i cambi di scena che sembrano quasi delle dissolvenze in un montaggio preciso e perfetto, ricco di “effetti speciali” (che però non risultano debordanti), accompagnato dalla musica di quello che forse ha anticipato di qualche decennio quella che sarebbe stata la scuola delle colonne sonore per la cellulosa.
Perché in fondo Puccini, Illica e Giacosa hanno messo tutto nero su bianco, nel libretto e nello spartito: il dramma, l’amore, la brutalità del potere, il sadismo della forza, la passione della carne. Si trova tutto in quelle pagine immortali, senza bisogno di fronzoli, di sconvolgimenti della forma e della sostanza: è tutto lì, con un’attualità sconvolgente.
Accompagnato da quella che si conferma essere una delle bacchette pucciniane migliori dei nostri tempi: quella del maestro Chailly, il quale si prende certo qualche piccola licenza – che si adatta perfettamente allo regia – ma mantiene un equilibrio perfetto dall’inizio alla fine. Un equilibrio sottile tra lo spartito e la regia, con i cantanti e l’orchestra in perfetta armonia. Nonostante le prime battute che sembrano lente, nel complesso si intuisce perfettamente ogni singola scelta stilistica del maestro, che alla fine restituisce un insieme compiuto, preciso e filologico.
Le scene sono imponenti, così come la macchina che le sposta, le alza, le abbassa, le fa ruotare in funzione della trama: una macchina di forma barocca che si ripete in tutto e per tutto nella sostanza di quello che avviene sul palco, un’impressione monumentale che però non distrae dallo svolgimento della trama, ma ne amplifica l’essenza.
Sul palco i due protagonisti della serata (grande assente Anna Netrebko, causa un malore) sono stati senza dubbio Francesco Meli, che è un Cavaradossi semplicemente perfetto, e Luca Salsi, che ci restituisce un barone Scarpia intenso e tecnicamente ineccepibile.
Meli ha doti interpretative innegabili, completate da una vocalità versatile e apprezzabile in tutti i registri del tenore. Appassionato, equilibrato, rende impeccabili allo stesso modo le famose romanze dell’opera e i tanti duetti con la protagonista, senza perdere per un attimo il filo del libretto e dello spartito.
Salsi allo stesso modo sa essere brutale come la parte impone e sfoggiare tutta la vocalità necessaria al personaggio: memorabile la chiusura del primo atto con il te deum, ma anche il duetto con Tosca alla fine del secondo.
Saioa Hernàndez, invece, non ci ha convinto del tutto nella parte di Tosca: nonostante una performance impeccabile dal punto di vista tecnico, rispetto ai suoi colleghi maschili non spicca sul lato interpretativo, restituendo al pubblico un soprano pucciniano classico e potente, ma leggermente sfasato rispetto al resto del cast sul piano dell’interpretazione. Certo, l’impresa era davvero impossibile, di questo siamo consapevoli.
A fine spettacolo applausi scroscianti e prolungati per tutto il cast, da parte di un teatro davvero gremito, in particolare per Meli, Salsi ed Hernàndez. Ovazioni sentite anche per il maestro Chailly.
La recensione si riferisce alla recita del 19 dicembre 2019.